Ripensando a Rainer…
Il 2022 è un anno particolare. Ben quarant’anni fa, infatti, moriva il grande Rainer Werner Fassbinder, il quale, dieci anni prima, aveva diretto il lungometraggio Le lacrime amare di Petra von Kant, tratto dalla sua omonima opera teatrale realizzata l’anno precedente. Potevano, dunque, tali importanti ricorrenze lasciare indifferenti i cineasti dei giorni nostri? Ovviamente no. E infatti a omaggiare il celebre regista, attore e drammaturgo tedesco ha pensato François Ozon con il suo Peter von Kant, film d’apertura – in corsa per il tanto ambito Orso d’Oro – della 72° Berlinale.
La storia è quella che conosciamo – e amiamo – tutti, ma, stavolta, è tutta al maschile: Peter von Kant (impersonato da un ottimo Denis Ménochet) è uno stimato regista, che da anni vive insieme al suo assistente Karl e che ha alle spalle un matrimonio – da cui è nata una figlia – conclusosi con la morte prematura di sua moglie. Un giorno Sidonie (Isabelle Adjani), una sua amica di vecchia data, nonché sua ex musa, gli presenta il giovane attore Amir (Khalil Garbia). Per Peter è amore a prima vista. I due, così, iniziano una relazione, la quale, tuttavia, qualche mese dopo, inizierà a prendere pieghe inaspettate.
Quello che Ozon ha voluto mettere in scena in questo suo Peter von Kant è, come ben sappiamo, soprattutto un omaggio al grande Fassbinder. Lo stesso protagonista (che in questo caso potrebbe anche permettersi di sognare a occhi aperti per quanto riguarda un possibile Orso d’Argento per la Miglior Interpretazione) è il ritratto preciso del cineasta bavarese. Alla sua fisicità e ai suoi intensi primi piani, dunque, Ozon affida gran parte del suo lungometraggio e grazie a lui la figura di Rainer Werner Fassbinder ci si materializza quasi davanti agli occhi.
Peter von Kant è un uomo fondamentalmente solo. Pur essendo circondato da numerosi affetti (tra cui, appunto, sua figlia adolescente, sua madre – impersonata, secondo una scelta quasi d’obbligo, dalla grande Hanna Schygulla – e la sua amica Sidonie, oltre, ovviamente, al fedele assistente Karl, da lui costantemente maltrattato), egli continua a sentirsi solo e solamente nell’alcool e nell’amore non corrisposto di Amir sembra trovare una propria, fittizia consolazione.
La disperazione di Peter von Kant (che nel lungometraggio, non a caso, compie quarant’anni, tanti quanti sono, appunto, gli anni dalla morte di Fassbinder) è la stessa che ha portato il regista a porre fine alla sua vita nel 1982. Ozon lo fa rivivere in occasione della Berlinale, attenendosi a un copione già scritto, creando evidenti parallelismi e facendo di colori accesi e raffinati giochi di luci e ombre (oltre, ovviamente, a un importante discorso sul cinema e sull’atto del guardare in sé) i suoi cavalli di battaglia. Il suo Peter von Kant “vince facile”, quello sì. Eppure non si può non riconoscergli una sincerità di intenti e una certa grazia nella messa in scena che il cinema di Ozon ci ha sempre regalato. Rainer Werner Fassbinder, nel corso della sua breve, ma incredibilmente prolifica carriera, è di diritto passato alla storia. E, ogni tanto, è sempre bene ricordarlo.
Marina Pavido