71 frammenti (all’incirca) di una cronologia dell’invasione
Le ragazze di Praga hanno i capelli come grano d’agosto
se le guardi negli occhi rischi di perderti in un mare più vasto
profondità che ci spaventa un po’, ha l’odore forte della libertà
Le fate danzano intorno a Jan
E quelle fate cantano insieme a Jan
le nostre fate pregano insieme a Jan
Jan è un segno che non passerà,
Jan ha il profumo della primavera…
Skoll, “Le fate di Praga”
Ci perdoni l’amato Michael Haneke, se nel titolo dell’articolo siamo arrivati fin quasi a parodiare il suo 71 frammenti di una cronologia del caso (71 Fragmente einer Chronologie des Zufalls, 1994) agghiacciante capitolo conclusivo di quella che, non a caso, era stata ribattezzata “trilogia della glaciazione”. Qualcosa di agghiacciante vi è pure nel documentario del ceco Jan Šikl: i carri armati a Praga. Per il resto i due film sembrerebbero percorrere strade parallele, sia a livello formale che di contenuti. C’è però un’idea di fondo che ci piaceva e che ci ha suggerito il senz’altro arbitrario accostamento; l’idea, cioè, che il ritratto più veritiero di un evento (di finzione – ma ispirato a un reale fatto di cronaca – in un caso, storico nell’altro) potesse scaturire da un pressoché casuale, nonché sconnesso ritrovamento (e assorbimento) di immagini. Da quel loro fluire paratatticamente sullo schermo. Tessere di un inquietante mosaico che, col tempo, vanno a colmare vuoti, senza approdare a risposte definitive, ma facendo un po’ di luce intorno alle inevitabili zone d’ombra del racconto.
In concorso al 33° Trieste Film Festival (dove, a nostro avviso, avrebbe meritato un premio o almeno una menzione, se non addirittura il riconoscimento principale del Concorso Documentari), l’ispirato lavoro di Jan Šikl rappresenta vieppiù un modo di inoltrarsi lungo i sentieri della memoria, che nel corso di questa edizione ha conosciuto altre tappe importanti sia per i temi affrontati che per un non omologato e finanche creativo approccio alla ricerca. Pensiamo soprattutto a 1970 di Tomasz Wolski, esplorazione di analoghi drammi collettivi che ebbero luogo nel suddetto anno in Polonia, portata avanti appaiando immagini di repertorio e ricostruzioni di accese conversazioni tra uomini di partito e militari, ivi rappresentati tramite pupazzi di plastilina, allorché le tracce audio dei loro dialoghi sono invece autentiche testimonianze d’epoca, da poco rese pubbliche.
Venendo alla specificità di Reconstruction of Occupation (Rekonstrukce Okupace, 2021), c’è da dire che in relazione alla violenta repressione della cosiddetta Primavera di Praga vi sono stati, anche di recente, altri lavori di notevole impatto. Il tocco di Jan Šikl è però di gran lunga più personale, in quanto lieve all’apparenza ma di fatto estremamente stratificato, multiforme, teso a produrre sempre più interessanti cortocircuiti metalinguistici. La “miccia” da cui si accende la ricerca è proprio il ritrovamento di alcune bobine mai viste prima sull’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel ‘68. E già questo presenterebbe i caratteri dell’eccezionalità. Il cineasta ceco, che pure in precedenti occasioni si era occupato del recupero di “home movies” e materiali affini, per primo è rimasto sorpreso di fronte alla particolare vivezza delle immagini ritrovate, in grado di introdurre punti di vista nuovi e più accurati su pagine così dolorose della storia ceca recente. Ma di fronte a questo dato, pur rilevante, non si è certo fermato…
Difatti archeologia cinefila e riflessioni in continuo divenire su determinate eredità storiografiche hanno parimenti diritto di cittadinanza, in Reconstruction of Occupation. Da un lato il regista ci mostra con stupore quasi infantile sequenze inedite dell’arrivo dei carri armati, delle manifestazioni di protesta, dei piccoli o grandi sabotaggi avviati a livello popolare, della folla in tumulto per le vittime di una cruenta repressione attuata prima dagli invasori del Patto di Varsavia e poi dai non meno tetri “collaborazionisti”, spuntati fuori sul versante cecoslovacco.
Eppure, in un per certi versi soterico passaggio “dal generale al particolare”, Jan Šikl ha utilizzato il clamore mediatico della scoperta non soltanto per favorire il ritrovamento di altri preziosi spezzoni di pellicola, rimasti fino ad allora sepolti, ma anche per mettersi alla ricerca di chiunque riconoscesse se stesso o qualche amico o parente in quelle immagini. Ed è lì che il film prende ulteriormente vita, rendendo la testimonianza storica sempre più tangibile, vissuta come ferro caldo sulla propria pelle, sedimentata attraverso anni e anni di riflessioni personali, rielaborata a seconda dei singoli casi accettando malinconicamente lo status quo successivo alla restaurazione dell’opprimente “socialismo reale” o entrando apertamente in conflitto con esso, col rischio di andare incontro a un’emarginazione sociale che sarebbe durata ancora a lungo. Paradigmatico è in tal senso il ricordo degli eventi più tragici, su tutti il sacrificio di Jan Palach e degli altri ragazzi che per protestare contro l’infame aggressione sovietica si diedero fuoco: un atto indubbiamente generoso, eroico, spogliato però qui di certi orpelli retorici e filtrato per l’occasione dagli sguardi di altre persone, giovani all’epoca, che nel ricordare le sensazioni di allora – soprattutto lo sgomento – non hanno problemi a confessare che quelle morti a loro erano sembrate più un epitaffio sul precedente rigurgito di libertà, che l’ingresso in una nuova fase di lotta e riscossa nazionale. I successivi due decenni, caratterizzati da cupo conformismo e arretramento delle rivendicazioni collettive, purtroppo avrebbero dato loro ragione.
Stefano Coccia