C’era veramente una volta
“Ti racconterò la storia di un ragazzo che non sarebbe mai diventato adulto“. Quante volte da bambini abbiamo sentito questo incipit, talmente tante da essere entrato nelle nostre teste per non abbandonarle ma più, nemmeno con l’avanzare dell’età e con tutto ciò che ne consegue. L’incipit è di quelli inequivocabili, di quelli che non consentono il benché minimo dubbio sulla paternità, sulla genesi e soprattutto sul suo protagonista. Ma se dovesse per qualche motivo suonare sconosciuto a qualcuno dei nostri lettori è di Peter Pan che si sta parlando ed è a lui che Joe Wright ha deciso di dedicare una nuova pellicola dal titolo Pan – Viaggio sull’isola che non c’è, presentata come evento di Alice nella Città alla decima edizione della Festa del Cinema di Roma e nelle sale nostrane a partire dal 12 novembre con Warner Bros. Pictures.
Vista la mole di precedenti, però, viene di riflesso da chiedersi il perché di questa ennesima iniziativa cinematografica, o meglio cosa abbia spinto i produttori di turno a portare nuovamente sul grande schermo le avventure del celeberrimo bambino volante. Nato dalla penna dello scrittore scozzese James Matthew Barrie nel 1902, oltre che in due diversi testi letterari (“Peter Pan nei Giardini di Kensington” e in “Peter e Wendy”) e in un’opera teatrale, il personaggio è apparso infatti anche in numerose altre produzioni di varia natura (film, cartoni animati, fumetti), tutte ispirate agli scritti di Barrie e al relativo merchandising. In particolare, la sala ha visto transitare in più di un’occasione la sua figura e le sue gesta: dal film Peter Pan del 1924 all’amatissimo film animato di Walt Disney del 1953, passando per le varie trasposizioni successive del romanzo (Peter Pan del 2003) e a quelle a esso ispirate come lo spielberghiano Hook – Capitan Uncino o Neverland – La vera storia di Peter Pan.
Ma l’immaginazione si sa è più forte della realtà e qualcosa, in particolare in quel di Hollywood, compreso anche il più insignificante cavillo drammaturgico al quale aggrapparsi, spunta miracolosamente fuori dal cilindro consentendo allo sceneggiatore di turno di resuscitare questo o quel personaggio, così da continuare a spremerlo. Uno come Peter Pan è di quelli intramontabili e destinati ad attraversare indenni le epoche, vuoi per il fascino che ancora suscita nei più piccoli, vuoi per il messaggio universale che porta con sé. Ciò significa che quella firmata da Wright non sarà di certo l’ultima trasposizione, ma speriamo almeno che se ce ne saranno di future (cosa molto probabile) almeno siano degne di nota, poiché il suo Pan lascia davvero molto a desiderare.
Qui ritroviamo Peter (Levi Miller), un dodicenne birichino con una insopprimibile vena ribelle, qualità che nel triste orfanotrofio di Londra dove ha vissuto tutta la vita non sono ben viste. In una notte incredibile Peter viene trasportato dall’orfanotrofio dentro un mondo fantastico, popolato da pirati, guerrieri e fate, chiamato Neverland. E lì si ritrova a vivere straordinarie avventure e a combattere battaglie all’ultimo sangue nel tentativo si svelare l’identità segreta di sua madre, che lo aveva abbandonato tanto tempo prima, ed anche il suo posto in questa terra magica. In una squadra formata dalla guerriera Tiger Lily (Rooney Mara) e dal suo nuovo amico di nome James Hook (Garrett Hedlund), Peter deve sconfiggere lo spietato pirata Blackbeard (Hugh Jackman) per salvare Neverland e scoprire il suo vero destino: diventare l’eroe che sarà conosciuto per sempre con il nome di Peter Pan.
Come avrete notato Jason Fuchs, sceneggiatore incaricato di dare un senso all’operazione e di conseguenza una risposta alla nostra domanda, non deve averci messo tanto a trovare la chiave drammaturgica per giungere a conclusioni, visto che come molti colleghi non ha fatto altro che mettere insieme le due soluzioni più scontate e praticate: da una parte creando una fusione tra il prequel e il reboot, mescolando i meccanismi che li regolano (non a caso, la frase di lancio recita così: “Ma questa non è la storia che già conosci. A volte, per capire meglio come finiscono le cose, dobbiamo prima sapere come sono iniziate”); dall’altra sottoponendo il plot originale alla pratica piuttosto comune nell’ultimo decennio che ha visto e continua a vedere fiabe e favole della tradizione letteraria prestare sempre più frequentemente il fianco alla Settima Arte e a tentativi di rivisitazioni più o meno riusciti. Ma il Pan del regista britannico, conosciuto nell’ambiente per aver firmato trasposizioni di grandi classici come Orgoglio e pregiudizio, Espiazione o Anna Karenina, non è tra questi. Su entrambi i fronti il risultato fallisce miseramente, ma cosa ancora più grave è che si tratta di un film che inspiegabilmente non si sa a quale target vuole rivolgersi. Ciò che scorre sullo schermo si rivela, infatti, una via di mezzo tra quello che amano vedere gli spettatori più piccoli e quello che preferiscono le fasce più adulte. Troppo stratificato e mnemonico narrativamente, troppo gonfiato e pomposo visivamente per trovare il giusto equilibrio tra i diversi potenziali fruitori. Tale indecisione finisce per non accontentare nessuno dei due potenziali fruitori, diventando di fatto un tallone d’Achille insormontabile.
Il regista londinese dà origine a un giocattolone che mira più allo spettacolo visivo e all’azione più che alla storia e alle dinamiche dei personaggi che la animano (vecchie e nuove conoscenze, inedite alleanze e misteri da scoprire). Cosa abbastanza inconsueta per un Wright che da questo punto di vista è sempre stato molto attento non solo alla forma, ma anche ai contenuti. Ne consegue uno show cinetico che intrattiene ma non coinvolge, con sequenze ben confezionate, ma decisamente fini a se stesse (vedi il primo sbarco dei pirati nel villaggio dei bimbi sperduti o il finale).
Francesco Del Grosso