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Our Lovely Pig Slaughter

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VOTO: 8,5

Certe tradizioni sono dure a morire

Chi ha dimestichezza con la lingua sa che la radice della parola “Mord” in ceco significa macello o strage. Il fatto che Adam Martinec l’abbia scelta per battezzare il debutto nel lungometraggio non gioca di certo a suo favore, poiché a coloro che non hanno ancora avuto modo di vederlo e sapere cosa racconta, potrebbe suonare male e promettere nulla di buono. Noi che abbiamo avuto la fortuna di assistere alla proiezione alla 36esima edizione del Trieste Film Festival, laddove è stato presentato nel concorso lungometraggi della kermesse giuliana dopo l’anteprima e la menzione speciale vinta a Karlovy Vary nel 2024, possiamo rassicurare i futuri spettatori che non c’è nessuna strage umana nella pellicola in questione. Il titolo internazionale Our Lovely Pig Slaughter in tal senso spazza via qualsiasi dubbio in merito, rivelando a cosa il regista di Krnov si riferisce rispetto a quello originale. Resta comunque il fatto che ciò che viene narrato e mostrato non piacerà per niente agli animalisti ed è più che legittimo data l’efferatezza e la violenza consumata ai danni degli animali che loro malgrado ne sono destinatari.
Il film si riferisce alla tradizione della macellazione domestica dei maiali nella sua terra natia. Si tratta di un rituale che unisce la famiglia attraverso le generazioni nel lavorare insieme per trasformare un maiale allevato in casa in una serie di prelibatezze. Rituale che però è stato messo al bando da Bruxelles e dall’UE che l’hanno di fatto vietato. Ma si sa certe tradizioni sono dure a morire e nelle campagne ceche, clandestinamente e con forze dell’ordine disposte a chiudere anche un occhio al cospetto di violazioni, continuano a sopravvivere. Lo testimonia proprio il film di Martinec che porta sullo schermo la suddetta pratica, ma usandola solamente come punto di partenza e contesto per parlare di altro, allargando così l’orizzonte narrativo, drammaturgico e tematico del plot. Spostando l’attenzione sulla storia per osservarla in un’ottica più ampia ci si trova infatti al cospetto di una riflessione su quelle tradizioni che vanno scomparendo nel mondo rurale. Condivisibili o no fanno parte della Storia di un Paese, motivo per cui il venire meno e l’estinzione sono come togliere qualcosa in termini identitari a chi ne viene privato. Our Lovely Pig Slaughter parla più in generale di tutte quelle tradizioni secolari che stanno rapidamente sparendo sotto i nostri occhi ed è su questo discorso che l’autore e la sua opera si soffermano e si concentrano.
Scavando ancora più in profondità ci si rende conto che c’è ancora tanto altro ed è su questo che la scrittura dello stesso Martinec va poi a soffermarsi con estrema attenzione fino all’ultimo fotogramma utile. Ecco materializzarsi un’ode tragicomica alle faide familiari con l’evento in sé che diventa uno strumento e al contempo un’occasione per esplorare le tensioni generazionali e di genere in ambito domestico. Il film è ambientato durante la macellazione del maiale che si svolge ogni anno dai nonni a Osoblaha. Tuttavia, stavolta si preannuncia diversa dalle altri. Il nonno è alle prese con la difficile decisione di porre fine a questa tradizione molto sentita, e ciò preoccupa il genero e vedovo Karel, che in questo evento trova conforto alla sua solitudine. Allevare un maiale è diventato ormai troppo gravoso. Tra tensioni crescenti, il carattere dominante di Karel e il matrimonio in crisi di Lucia si aggiungono alle controversie della famiglia, che deve inoltre fare i conti con un vicino di casa dispettoso. Una sfida ulteriore nasce quando il macellaio Tonda si presenta con delle cartucce umide, mettendo così a rischio la riuscita dell’evento. Nel corso della giornata i legami familiari vengono messi a dura prova ed emergono la forza e la fragilità delle relazioni umane fondate sulla tradizione e sull’amore.
Il regista, qui anche sceneggiatore, attinge ai suoi ricordi personali per raccontare la classica reunion, che visti i tanti precedenti si sa essere difficilmente celebrazione pacifica e amorevole del volemose bene (vedi Parenti serpenti o Happy New Year, Colin Burstead, passando per A casa tutti bene), per parlare della complessità della vita e dei legami biologici. Lo fa mescolando efficacemente il tragico con il banale in un modo che ricorda la Nouvelle Vague cecoslovacca, con la memoria che va di default alle pagine dei romanzi di Bohumil Hrabal, molte delle quali tradotte in immagini da Jiří Menzel (tra cui Treni strettamente sorvegliati, vincitore dell’Oscar al miglior film in lingua straniera). Come il modello letterario e cinematografico di riferimento, l’autore bilancia in maniera equilibrata i momenti di umorismo con riflessioni più profonde e toccanti, giungendo a un epilogo potentissimo ed emozionante che è l’espressione perfetta di tale mix. Per raggiungerlo si avvale di un’estetica rigorosa, asciutta e grezza fatta di camera a mano e illuminazione naturale, con un approccio visivo davvero funzionale che ricorda quello documentaristico. La verità e il realismo che ne scaturisce trova anche nella scelta di affidarsi a un cast formato da non professionisti un’ulteriore spinta propulsiva. Il tutto concorre a dare forma e sostanza a un film che lascia il segno come solo i colpi al cuore sanno fare.

Francesco Del Grosso

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