Salim Shaheem: man of the year
Bigger than life. Potrebbe essere definito tranquillamente così il percorso esistenziale (e sullo schermo) di Salim Shaheem, che con oltre 110 film all’attivo è diventato un’icona popolarissima del suo Afghanistan devastato dalle guerre, dagli attentati, dalla follia dei Talebani e dalle ingerenze straniere. Ma come sono questi film da lui diretti ed interpretati? Per poterli onestamente descrivere occorre muoversi in direzione di un sentito, accalorato elogio del “nulla”. Ovvero il nulla o quasi con cui, in termini di risorse produttive, sono state realizzate tali opere che magari possono risultare ingenue, bizzarre, approssimative, veicolando però a modo loro una salvifica ricerca dell’espressione artistica, in contrapposizione all’orrore dilagante. Ed è così che tra le macerie della società afgana è nata, per ammissione dello stesso Salim Shaheem, una specie di Nothingwood, ben lontana ovviamente dalla ricchezza di mezzi che caratterizza sia Hollywood in America che Bollywood nel sub-continente indiano, ossia le grandi industrie dello spettacolo cui l’istrionico showman mediorientale scherzosamente allude. Anche se poi, va detto, proprio ai colorati balletti di Bollywood alcune pittoresche sequenze dei film di Salim Shaheem sembrano strizzare l’occhio…
Fin qui lui, il grande mattatore. Ma lo straordinario impatto di un documentario come Nothingwood risiede non solo nel personaggio ma anche nell’occhio che lo rivela. Nella fattispecie quello di Sonia Kronlund, documentarista europea che a un certo punto confessa di aver fatto molti altri viaggi in Afghanistan, generalmente per raccontare con l’ausilio della macchina da presa i tanti massacri e la difficile vita della popolazione. Con questo suo nuovo lavoro la regista offre all’inizio l’impressione di volersi concedere un divertissement dalle forti coloriture pop. Solo apparentemente, però. Perché in Nothingwood la morte è sempre in agguato. Lo è nei racconti di Salim Shaheem e della sua pittoresca troupe, avendo loro vissuto sulla propria pelle le conseguenze di alcuni dei momenti più drammatici, nella storia della martoriata nazione asiatica; ma lo è pure a livello di immagini, poiché con accortezza Sonia Kronlund interrompe più di una volta l’idillio, alternando agli sketch più spassosi dei film le brutali testimonianze video degli attentati che ancora oggi sconvolgono la quotidianità di Kabul e delle altre città afghane.
Nothingwood diviene così caleidoscopico viaggio in una realtà schizofrenica. Si ride, anche molto, grazie alle metacinematografiche inserzioni della vita sul set e degli stessi spezzoni di repertorio, in cui rifulge l’artigianale creatività di Salim Shaheem e dei suoi: irresistibile, lui, tanto nei panni di un improbabile venditore di the che nel ruolo di impavido eroe popolare con indosso l’uniforme. Si salta poi a raggelanti rievocazioni del periodo bellico. E c’è spazio anche per momenti di riflessione tutt’altro che peregrini, come quello in cui un pensieroso Salim Shaheem commenta, da artista refrattario alla barbarie, lo scempio compiuto dai Talebani facendo saltare in aria le enormi ed antiche statue della sua Bamyan.
Il tutto avviene poi in forma di stimolante dialogo, di confronto culturale franco ed aperto, tra l’istrionico protagonista e la regista del documentario: il loro percorso di reciproca scoperta è perciò un altro degli ingredienti che rendono così sapida la visione di Nothingwood.
Stefano Coccia