Il fattaccio di Lavarone
Nel Trentino, l’arte ha trovato un modo unico di rispondere alla devastazione causata dalla Tempesta Vaia, che tra l’ottobre e il novembre 2018 si è abbattuta sulle zone delle Dolomiti e delle Prealpi Venete causando ingenti danni a immobili e infrastrutture, oltre che ambientali con lo sradicamento e la distruzione di circa 14 mila alberi. Artisti locali e internazionali hanno utilizzato il legno di quegli alberi per realizzare opere che non solo celebrano la bellezza naturale di quella materia prima, ma servono anche come monumenti alla resilienza e alla rigenerazione della natura. Si tratta di sculture esposte in vari luoghi della Regione, capaci di attirare turisti e appassionati, offrendo un modo tangibile per ricordare l’impatto di quel cataclisma e la necessità di proteggere l’ambiente.
Tra queste c’è, o meglio c’era, il Drago Alato di Vaia, una scultura in legno raffigurante un drago per l’appunto che superava i 6 metri di altezza e i 7 di lunghezza, realizzata con 3.000 viti e 2.000 scarti di arbusti divelti dalla furia dell’uragano, dall’artista e scultore locale Marco Martalar, che si trovava nella frazione di Magré del comune di Lavarone, nell’Alpe Cimbra. Un’opera la cui straordinarietà stava anche nella sua caducità, poiché realizzata con un legno non trattato destinato a scomparire piano piano nel tempo, sotto la forza della neve e del vento. Un Drago che, però, è scomparso prima di quanto si potesse pensare. Nell’agosto 2023 venne distrutto da un incendio doloso, un atto vile che non solo cancellò un’opera d’arte, ma ferì profondamente l’anima di una comunità. Fortunatamente però l’estate successiva rinacque dalla ceneri sempre per mano di Martalar, ribattezzata Drago Vaia Regeneration, con le sue 6 tonnellate di legno carbonizzato, i 16 metri di lunghezza e i 7 di altezza, diventando la scultura di drago in legno più grande al mondo. Ed da questa incredibile e significativa storia di morte e rinascita che è nato il nuovo documentario di Katia Bernardi dal titolo Nella pelle del Drago, presentato in anteprima alla 73esima edizione del Trento Film Festival nella sezione “Orizzonti vicini”.
Per la sua realizzazione la regista trentina ha scelto una formula che calza a pennello, quella della crime-comedy documentaria in salsa country. Una scelta, questa, decisamente controcorrente rispetto a quelle che sono le formule collaudate in voga al momento e utilizzate per confezionare storie tendenti all’inchiesta, al mistery e al procedurale, ma che a conti fatti risulta vincente poiché conferisce al progetto una veste originale e tutt’altro che scontata. Mantenendo un profondo rispetto nei confronti della gravità dell’accaduto, il modus operandi utilizzato dalla Bernardi, che si appoggia comunque sugli stilemi e gli ingredienti tipici dei generi chiamati in causa, si lascia andare a un mix riuscito e calibrato di leggerezza e drammaticità che stempera nel modo giusto e al contempo intrattiene. La regista opta dunque per un racconto con toni grotteschi attraverso i quali immerge il fruitore in un’indagine tra le pieghe della piccola comunità di montagna, silente e rumorosa, messa in crisi dal dolo, con testimoni e persone reali che diventano pedine e personaggi di una vicenda piena zeppa da chiaroscuri, contraddizioni, verità e complessità. Con il piglio del mockumentary, Nella pelle del Drago rimette insieme uno dopo l’altro i pezzi del mosaico senza però ricorrere al fake ma appoggiandosi alla verità dei fatti, qui rievocati mediante una successione di interviste alle figure coinvolte e a materiali di repertorio sapientemente amalgamati.
Il risultato è una linea gialla da detective story che coinvolge e appassiona lo spettatore di turno, attratto da una ricerca di indizi, responsabilità e colpevoli. Ne scaturisce una fitta rete di congetture, complotti e sospetti, alcuni dei quali ricadono persino sull’autore della scultura accusato di essere alla ricerca di visibilità. Il mistero si gonfia e si infittisce con lo scorrere dei minuti e non è detto che al termine venga dipanata dal venire a galla della verità. Ma su questo non ci pronunciamo, lasciando alla visione del documentario il compito di rivelarla oppure no.
Francesco Del Grosso