Passione comune, visioni diverse
Normalmente al Trento Film Festival opere che come SKI – The Greatest Ski Tour of All Time raccontano grandi imprese ad alta quota compiute da uomini e donne che decidono di andare oltre i limiti per scrivere pagine importanti e indelebili nella storia dello sci e dell’alpinismo vengono raccolte e fatte confluire in una sezione apposita chiamata “Alp&Ism”, che poi è quella che offre nel complesso della kermesse i contenuti più spettacolari e che rispecchia la mission che ormai settant’anni e passa fa ha portato alla sua nascita. Quella sarebbe stata quindi la collocazione per caratteristiche e contenuti fisiologicamente e geneticamente più consona per il documentario scritto e diretto da Nikolai Schirmer. Tuttavia i selezionatori della manifestazione trentina hanno deciso di fare uno strappo alla regola non scritta, ritagliando per la pellicola in questione uno spazio nella rosa dei titoli inseriti nel concorso internazionale. Eccola allora figurare nella competizione principale a contendersi i riconoscimenti della 73esima edizione, dove è stata presentata in anteprima italiana.
La pellicola dello sciatore e regista norvegese, oltre ad avere in dotazione un’indubbia qualità e un livello impattante delle immagini, capace di regalare al fruitore uno show adrenalinico, spettacolare e coinvolgente, ha dalla sua parte anche una vicenda, delle dinamiche e delle implicazioni interessanti per quanto concerne la componente narrativa e drammaturgica, che vanno al di là della cronaca più o meno avvincente di un’impresa sportiva. Il ché avrà fatto maturare nel comitato di selezione la decisione, per quanto ci riguarda condivisibile, di cambiare collocazione all’interno della line-up. Ed è questo secondo aspetto a permettere al progetto di catturare maggiormente l’attenzione. Del resto l’occhio vuole la sua parte, ma lo spettacolo resta futile e fine a se stesso se non messo al servizio o fianco a fianco del contenuto che è chiamato a veicolare. Nel caso di SKI – The Greatest Ski Tour of All Time ne è parte integrante e motore portante.
Si tratta di un film affascinante, con una serie di spunti che nascono dal background dell’autore, un filmmaker autodidatta e freeskier professionista che si guadagna da vivere grazie a questa combinazione. Eletto due volte sciatore europeo dell’anno, Schirmer si è fatto un nome come popolare YouTuber e atleta di talento, realizzando cortometraggi dedicati allo sci che hanno ottenuto milioni di visualizzazioni sul suo canale. In tal senso, sul piano estetico, formale e ritmico questo suo primo lungometraggio ne rappresenta un’estensione. Diverso il discorso sulla scrittura. È lì che c’è stato un evidente upgrade, con l’autore che ha attinto al suo vissuto, alle sue esperienze personali e professionali, ma anche ai suoi affetti per portare sul grande schermo una storia di sport e di amicizia. Queste si fondono nel plot, mescolandosi senza soluzione di continuità, per mostrare gli effetti dello scontro tra il mondo ipercommerciale dello sci in freeride professionale con i modi puristi e misantropici dell’alpinismo. Ciò avviene quando lo stesso Schirmer scopre che il suo solitario amico d’infanzia si sta imbarcando in un tour sciistico senza precedenti, e che non ha intenzione di dirlo ad anima viva. Si tratta di Vegard Rye, altro straordinario talento scandinavo, che si sta allenando per scalare e scendere con gli sci 27 montagne in una sola volta. Per riuscire a compiere questa impresa disumana, Vegard si isola da amici e familiari, vive come un eremita e dedica la sua intera esistenza a migliorare se stesso. Nikolai vuole condividere la storia del suo amico con il mondo, dicendo a tutti che si tratta del “più grande tour sciistico di sempre” (da qui il titolo). Vegard lascia a malincuore che Nikolai e la sua troupe lo seguano con una telecamera, in onore della loro amicizia. Il resto lo lasciamo a una visione che regalerà momenti divertenti e altri decisamente più seri, in un susseguirsi di cambi di registro che assecondano gli sviluppi della vicenda.
Ma non è tutto oro ciò che luccica. Il tallone d’Achille dell’operazione sta nel suo non essere veramente personale quando avrebbe potuto e dovuto essere, vista la dimensione privata e affettiva che vi era alla base, ma autoreferenziale, tanto da farla deragliare e perdere di potenza. Non è in dubbio l’efficacia del racconto e la costruzione architettonica, bensì l’approccio e la temperatura emotivamente fredda che assume il tutto. Davvero un peccato. Se l’autore avesse fatto un passo indietro, messo da parte il suo ego e desiderio di mettersi in mostra, lasciando più spazio alla storia di amicizia e di passione comune che lo legava al co-protagonista, sicuramente adesso parleremmo con toni più entusiasti e convinti.
Francesco Del Grosso