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My Sailor, My Love

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VOTO: 8

La terza età, tra toni burberi e tenerezza

Un’edizione dell’Irish Film Festival, la quattordicesima, che come la stessa direttrice Susanna Pellis ha voluto rimarcare è andata incontro in più di un’occasione a un tema delicato, spigoloso: il rapporto non sempre facile che si può avere con un padre, specie quando l’avanzare dell’età e le conseguenze del divario generazionale finiscono per evidenziare zone d’ombra, attriti, nodi irrisolti e rimossi d’ogni tipo.

In tal senso la giornata inaugurale del festival si è rivelata esemplare. Il primo evento pomeridiano ha avuto infatti inizio con la proiezione del brevissimo, folgorante corto d’animazione Memory of My Father; per tale ritratto impressionistico ma al contempo concentrato ed intenso della figura paterna, gli autori Cian Hughes e Bárbara Oliveira si sono appellati anche alla voce fuori campo, senz’altro evocativa, di Liam Neeson, impegnato qui a recitare una poesia di Patrick Kavanagh. Sempre in tale fascia orario ha trovato spazio il primo lungometraggio selezionato: My Sailor, My Love di Klaus Härö. Una scelta all’insegna dell’eccezionalità, per vari motivi. Curioso è intanto che il festival capitolino dedicato al cinema irlandese abbia esordito con un film che, per quanto ambientato nella verde isola, spunta fuori da una co-produzione internazionale e può vantare alla regia uno stimato cineasta finlandese. Tra le sue opere spiccano infatti Elina, già Orso di Cristallo alla Berlinale 2003, come pure Mother of Mine (2005) e Letters to Father Jacob (2009). Singolare è poi il fatto che anche questa co-produzione finnico-irlandese sia ambientata ad Achill Island, staordinaria location che le platee internazionali hanno scoperto di recente grazie a Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin) di Martin McDonagh.

Coste a picco sul mare, sguardo cinematografico a picco sui ricordi, sulla fragilità e sulle più sofferte emozioni dei protagonisti. I paesaggi aspri ed eppur così affascinanti di Achill Island fanno da sfondo qui a una cangiante, precaria rete di rapporti affettivi. L’attenzione si focalizza all’inizio sul complesso rapporto tra Howard, un burbero marinaio in pensione mai veramente ripresosi dalla drammatica dipartita della moglie, ed i parenti più stretti, divisi però tra chi si fa vivo una volta l’anno e chi rivela invece un maggior coinvolgimento emotivo; nella fattispecie la figlia Grace, segnata però da un’infanzia tutt’altro che facile. Tant’è che traumi mai superati e pressoché inevitabili ripicche si riaffacceranno nel loro rapporto, allorché la governante assunta da Grace per aiutare il padre nelle fatiche domestiche, Annie, dopo aver domato a stento il pessimo carattere dell’uomo tramite un mix di generosità, fierezza e dialogo, comincerà a dimostrargli non soltanto dedizione ma anche un affetto sincero.
Forte di un cast che rivela sensibilità a fior di pelle (James Cosmo, Bríd Brennan, Catherine Walker, Nora-Jane Noone e, Aidan O’Hare, nei ruoli principali), il finnico Klaus Härö conferma il dono di saper mettere a frutto soggetti tanto intimi, introspettivi, legandoli magnificamente sul piano registico a determinati ambienti; quelli naturali, come era lecito aspettarsi dalla scelta stessa della location, come pure gli interni, fotografati nella circostanza con una umbratile malinconia che asseconda ulteriormente l’empatia nei confronti dell’anziana, sorprendente coppia protagonista, passata in breve dalla diffidenza alla comprensione reciproca.

Stefano Coccia

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