Anche i ricchi piangono
Vicente Maldonado è il rampollo di un’agiata famiglia cilena, rappresentante di una gioventù dissoluta, di un benessere ostentato che nel paese rimane appannaggio degli strati sociali più elevati. Con Much Ado About Nothing – presentato al 27° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina nella sezione “Democrazie inquiete, viaggio nelle Trasformazioni dell’America Latina” – il regista Alejandro Fernández Almendras racconta di questa marmaglia di vitelloni che passano il loro tempo tra feste, grigliate, spiaggia, alcol e sesso. Il film, prendendo spunto da un fatto di cronaca, narra il fattaccio accaduto al protagonista: una notte, la macchina in cui viaggiano lui e i suoi amici, investe un uomo. Il ragazzo non era alla guida – lo era l’amico Manuel Larrea, figlio di un importante senatore – ma i suoi confusi ricordi per lo stato di ebbrezza fanno sì che diventi il capro espiatorio al processo, per salvare il vero responsabile.
Il Cile è uscito ormai da trent’anni dalla spietata dittatura di Pinochet, portandosi ancora dietro le cicatrici di quell’era, cicatrici che sono ben lungi dal rimarginarsi. Basta vedere l’ossessione con cui il cinema d’autore cileno, quello di Pablo Larraín o di Patricio Guzmán, torna a quella drammatica condizione. Con Much Ado About Nothing abbiamo il ritratto di una società pacificata quanto apatica, benestante quanto gretta. La domestica di casa Maldonado ha i lineamenti indios, segnale di un divario tra classi sociali, fatto di privilegiati e subalterni. E tutta la vicenda giudiziaria che coinvolge il ragazzo sembra giocarsi, più sulle effettive responsabilità o meno, su uno scontro dove a vincere sarà chi potrà essersi pagato l’avvocato migliore. E anche se Maldonado ha a disposizione i mezzi economici di una famiglia abbiente, si trova in posizione svantaggiata rispetto all’amico, appartenente a un clan ancora più potente e in vista.
Alejandro Fernández Almendras inserisce una battuta chiave verso i tre quarti del film. L’avvocato di Larrea, incontrando Vicente, ricorda di come da giovane fosse amico di suo padre e di come passarono l’epoca della dittatura. Tentarono anche invano di salvare la vita a un dissidente con uno stratagemma facile per loro, da funzionari pubblici. Avevano escogitato di denunciarlo per un crimine, così, da indagato, sarebbe finito sotto la giurisdizione di uno di loro, che lo avrebbe così sottratto alle grinfie dei militari. L’avvocato racconta questo episodio con un certo rammarico, misto a nostalgia. Questo passaggio, dal sapore auto assolutorio, è significativo per capire come le generazioni dei padri, che si vedono nel film, che rappresentano il nerbo della classe dirigente attuale, sono uscite dalla dittatura in cui sono cresciute, con la quale comunque avevano un rapporto di quieto vivere. Se anche hanno cercato di compiere buone azioni, si trattava di attività per loro indolori, senza compromettersi. Una buona azione, quella raccontata, fondata su un sotterfugio, perfettamente giustificato in quel contesto. Ora però che la dittatura è passata, i sotterfugi rimangono, e sembrano essere alla base del funzionamento della società cilena stessa. O almeno negli strati più altolocati.
Alejandro Fernández Almendras sceglie comunque di tenere il punto di vista di Vicente. Lo segue nella sua vita, ci fa partecipi dell’incidente dalla sua prospettiva e in qualche modo ci fa condividere il suo senso di spaesamento etilico, lui con la bottiglia di piscola, un cocktail molto diffuso in Cile, sempre in mano. Sappiamo che non era lui alla guida, ma i contorni dell’incidente rimangono vaghi. E la sua vita quotidiana prosegue nell’indifferenza, nonostante il processo incombente, di cui sembra importargli poco o nulla. Sempre tra spiaggia, feste, rapporti sessuali occasionali: di questo è fatta la sua vita quotidiana, che il regista segue. Un’abulia generazionale che riflette la catalessi di un paese. Su tutto cala una nebbia, quella che scaturisce dallo spruzzino d’acqua che la domestica usa per spegnere le braci della griglia. Nebbia che ottenebra tutta la vicenda con i suoi protagonisti.
Alejandro Fernández Almendras rende il linguaggio della contemporaneità con le continue didascalie dei messaggi scambiato da smartphone, che rappresentano un testo parallelo con i suoi dialoghi. Viene così restituita quella dimensione della comunicazione attuale, che impegna la testa su varie direzioni. E poi ancora i tweet che commentano la vicenda processuale, ormai di dominio pubblico, che appaiono e scompaiono sullo schermo. Much Ado About Nothing si inserisce così a pieno titolo, dopo Mary is Happy di Nawapol Thamrongrattanarit e Personal Shopper di Olivier Assayas, tra i film che hanno cercato di tradurre al cinema il linguaggio visivo e le interazioni tra gli individui propri del mondo d’oggi.
Giampiero Raganelli