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Live From Dhaka

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VOTO: 7

Braccato

Nell’ultimo decennio la generazione di cineasti del Bangladesh ha regalato alle platee di turno pellicole davvero interessanti. Tra quelli meritevoli di un’occhio di riguardo segnaliamo Abdullah Mohammad Saad, che con la sua opera prima dal titolo Live from Dhaka ha dimostrato di avere moltissimo da dire e altrettanto da mostrare. Dalla visione del suo esordio, presentato in anteprima italiana nel concorso lungometraggi del 27° Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina dopo i riconoscimenti ottenuti al Singapore International Film Festival 2016 (Miglior Regia e Migliore Attore Protagonista) e la première europea all’International Film Festival Rotterdam 2017, emergono tutta una serie di elementi che lasciano presagire ampi margini di crescita sia in termini drammaturgici che stilistici. Ma per stabilire se tutto questo avrà un seguito oppure no dovremo attendere le sue prossime prove dietro la macchina da presa. Solo allora potremo capire se quello che abbiamo avuto la modo di vedere nel corso della rassegna meneghina è l’ennesimo fuoco di paglia destinato a spegnersi o una fiamma che continuerà ad ardere negli anni avvenire. Staremo a vedere.
Nel frattempo, il regista classe 1985 di Chittagong ha messo la propria firma s un film di buona fattura, dal quale si evince una volontà precisa di guardare al cinema del passato piuttosto che a quello del presente. In tal senso, la fruizione di Live from Dhaka non può non richiamare alla mente dello spettatore echi provenienti da lontano, che riavvolgendo i fili del tempo portano direttamente alle Nouvelle Vague degli anni Sessanta, ma anche alle produzioni cosiddette indie a stelle e strisce. Nel film scritto e diretto da Abdullah Mohammad Saad gli aspetti dell’uno e dell’altro si mescolano senza soluzione di continuità, quanto basta per dare forma e sostanza a un’opera rigorosa, ma capace anche di invenzioni e di improvvise fiammate. Rigorosa tanto nella messa in quadro quanto nella scrittura. Ciò che la depotenzializza semmai è la ripetitività di certe situazioni, ripetitive e superflue tanto da appesantire un racconto che già di suo non è di facile digestione. Ad aggiustare le cose arrivano in soccorso le sofferte e partecipi performance davanti la macchina da presa di Mostafa Monwar e Tasnova Tamanna, rispettivamente nei panni del protagonista e della sua ex dolce metà.
Live from Dhaka è allo stesso tempo un ritratto impietoso di una metropoli, che nelle mani del regista si tramuta in una sorta di girone dantesco dove sopravvivere è quasi impossibile, ma anche il resoconto drammatico e disperato di un’odissea umana. Il film ci scaraventa senza rete di protezione nella soffocante realtà metropolitana di Dhaka, dove un uomo di nome Sazzad si ritrova in un vicolo cieco. Braccato da spietati creditori, abbandonato dalla ragazza che non sopporta più la sua gelosia ossessiva, Sazzad inizia una disperata lotta per la sopravvivenza, animato da un unico obiettivo: emigrare. La sua vita viene letteralmente schiacciata dal peso delle avversità che si susseguono come gli effetti di una maledizione che presenta conti sempre più salati. Un’esistenza, la sua, stritolata dalla morsa di un destino che non fa altro che accanirsi su di lui, lo stesso infame destino che ha voltato le spalle ai protagonisti di Old Stone di Johnny Ma o Biutiful di Alejandro González Iñárritu.
Ad amplificare ancora di più la sensazione di malessere che ti lascia addosso un film come questo ci pensa poi la fotografia in bianco e nero di Tuhin Tamijul, granulosa e dai chiaroscuro marcati, che togliendo i colori toglie anche quel briciolo di speranza che resta, perché di speranza nell’opera prima di Abdullah Mohammad Saad ce n’è davvero un’impercettibile traccia. Di conseguenza, l’odissea umana vissuta da Sazzad è una salita continua e inarrestabile che non ha appigli ai quali aggrapparsi con le unghie e con i denti per provare quantomeno a cambiare le sorti avverse.

Francesco Del Grosso

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