Romanzo di un massacro
Alla fine degli anni Ottanta, per la precisione il 29 ottobre del 1988, al confine tra Colombia e Venezuela, due uomini sopravvivono a una sparatoria in cui quattordici dei loro compagni perdono la vita. Nonostante siano semplici pescatori, l’esercito venezuelano li accusa di essere guerriglieri e vuole costringerli con tutti i mezzi a costituirsi.
Purtroppo quello che accadde quel maledetto giorno non è il frutto dell’immaginazione dello sceneggiatore di turno, ma una vicenda vera e tristemente nota che ha lasciato profonde cicatrici nella memoria del popolo venezuelano e che, come spesso accade quando c’è di mezzo lo Stato e una serie di dinamiche da insabbiare, non è andata a finire sulle pagine dei libri di Storia. Se mai le uniche testimonianze rimaste sono quelle raccolte all’epoca dai Media che decisero di raccontare i fatti che oggi come ieri vengono ricordati come quelli de “Il massacro”, gli stessi che Rober Calzadilla ha deciso di rievocare nella sua opera prima dal titolo El Amparo, presentata nel Concorso Lungometraggi Finestre sul Mondo del 27° Festival Cinema Africano, Asia e America Latina.
La pellicola del cineasta venezuelano, sbarcata in anteprima italiana all’ultima edizione della rassegna milanese dopo un lungo e fortunato percorso nel circuito festivaliero inaugurato nel 2016 con la proiezione a San Sebastián, ne ripercorre le fasi salienti, lasciando ai cartelli finali l’ingrato compito di informare la platea sugli sviluppi giudiziari seguiti agli eventi mostrati nel film. L’autore, infatti, circoscrive l’arco narrativo del racconto al giorno del massacro e a quelli immediatamente successivi, scaraventando lo spettatore in un autentico vespaio che a distanza di quasi trent’anni non si è ancora dissolto.
Cominciamo con il dire che Calzadilla ha dimostrato di non avere peli sullo stomaco, scegliendo di portare sullo schermo una storia come questa, maledetta e intricata, che nei decenni ha assunto via via i caratteri di un temporale con pochissime schiarite. Di quest’ultime ovviamente nello script non ci sono tracce, poiché quanto avvenuto per mano della polizia e dei militari guidati dal Comandante José Antonio Páez, durante il Governo di Jaime Lusinchi, ha gettato su chi ha perso la vita e su chi invece è riuscito a portare sana e salva (si fa per dire) la pelle a casa accuse infamanti. Il solo sforzo di essersi fatto carico di una simile responsabilità, a maggior ragione all’esordio sulla lunga distanza, è per quanto ci riguarda un punto a favore dell’autore, al di là della riuscita oppure no del suo lavoro dietro la macchina da presa. Lavoro che, come avrete modo di constatare, presentava non poche difficoltà e varianti impazzite per quanto riguarda l’approccio alla materia.
I contorni della vicenda sono sempre stati confusi, così come confuse sono state le dinamiche che hanno portato all’uccisione dei 14 pescatori. Di conseguenza, lo Stato e i suoi rappresentanti non potevano fare altro che provare a sotterrare il tutto attraverso manovre poche lecite, minacce e pressioni di ogni sorta, sia nei confronti dei due sopravvissuti, delle rispettive famiglie e di quelle delle vittime. Ma per provare a offrire una qualche parvenza di oggettività, il cineasta venezuelano ha scelto di lavorare in sottrazione nella fase di scrittura, lasciando volutamente fuori campo il massacro; quanto basta per consegnare al fruitore il rovescio della medaglia e la spaccatura venutasi a creare nell’opinione pubblica tra colpevolisti e innocentisti. In tal senso, in El Amparo non si raggiunge la piena oggettività, con la bilancia che finisce con il pendere dalla parte delle vittime, ma credeteci era davvero impossibile, date le evidenti responsabilità dello Stato, ottenerla. Ciononostante non può e non deve essere considerato un film di parte e schierato, ma un’opera che romanzando cerca di ricostruire il più fedelmente possibile quanto accaduto. Per farlo, Calzadilla e la sceneggiatrice Karin Valecillos non focalizzano l’attenzione del plot sul destino dei due sopravvissuti al massacro e sulle dinamiche interne alla caserma della cittadina di El Amparo, cella compresa, dove avviene la detenzione, ma l’azione si sposta frequentemente all’esterno. Il palleggio tra In and Out consente allo script di estendere i propri orizzonti drammaturgici, mostrando le reazioni dei familiari e le conseguenze sulle loro vite. Ciò comporta anche un sensibile allargamento dello spettro emotivo e della pluralità dello sguardo sui fatti che, così facendo, vengono narrati attraverso più punti di vista.
Il risultato è un film che lascia il segno, non solo a causa della storia che racconta, ma per la tensione crescente che riesce a portare sullo schermo. E il merito è della scrittura, ma anche dell’ottima performance dell’intero cast.
Francesco Del Grosso