Siamo tutti Chocolat
Un ragazzo di colore che lavora come fenomeno da baraccone in un circo di periferia. La miseria e la fame, grandi protagoniste del suo passato, così come del suo presente. L’incontro con un clown con il quale nascerà una nuova collaborazione, oltre ad un’intesa fuori dal comune. L’ascesa sociale, il prestigio, le donne e, di nuovo, la miseria, la fame, la malattia. Questo è Mister Chocolat: la storia vera del primo artista di colore ad avere successo in Francia agli inizi del Novecento. Storia, questa, dimenticata per molto tempo – persino dai francesi stessi – per poi essere riproposta nei giorni nostri grazie ad una robusta produzione alle spalle, con un cast stellare. La grande affluenza di pubblico registrata nelle sale d’Oltralpe era a dir poco scontata.
Ma cosa ha portato il lungometraggio del regista (ben conosciuto soprattutto come attore) Roschdy Zem ad avere un così grande successo? Di sicuro, la storia raccontata. Merito senza dubbio del protagonista, come anche del tema trattato: la diversità – o meglio, la paura del diverso – sempre attuale ed in grado di creare fin da subito un forte legame con lo spettatore, il quale, a sua volta, si sente ora vittima, ora carnefice, a seconda della situazione. E a questo proposito Rafael Padilla – in arte Chocolat, appunto – ha la capacità di incontrare le emozioni del pubblico grazie anche all’ottima caratterizzazione regalatagli da uno script robusto e convincente (realizzato da Cyril Gely), come anche grazie alle sue tristi vicende personali.
La vera peculiarità del film, però, sta, di fatto, nella scelta del cast: il nome di Omar Sy su di una locandina cinematografica equivale ad un boom di incassi fin dai primi giorni di proiezione. Attore, comico, speaker radiofonico, Sy ha piacevolmente sorpreso e commosso tutti con la sua indimenticabile performance in Quasi amici – per la regia di Éric Toledano ed Olivier Nakache. Da allora, è diventato uno degli attori più richiesti in Francia. Ed anche in questo suo ultimo lavoro, ha dimostrato grande conoscenza del personaggio da lui interpretato – cambiando spesso registro senza mai andare sopra le righe – oltre ad un’ottima padronanza della gestualità e del corpo, pur non avendo alcuna esperienza come circense, a differenza del collega James Thierrée, che nel circo è praticamente nato, e che, parimenti all’interprete principale – si potrebbe anche dire, addirittura, ingiustamente oscurato da lui – si è rivelato perfettamente all’altezza del ruolo assegnatogli.
Che cos’è che, invece, del lungometraggio di Zem proprio non convince? La maggiore debolezza del prodotto sta, di fatto, proprio nella regia. La macchina da presa, spesso e volentieri, tende ad indugiare troppo e troppo a lungo sui personaggi. L’effetto sperato sarebbe quello di enfatizzare la drammaticità delle scene, ma il risultato finale è un prodotto sì toccante, ma anche – a tratti – eccessivamente patetico e smielato. Vale, in particolare, per la scena del pestaggio di Chocolat – con un lieve accenno di ralenty rivelatosi pericolosamente inopportuno – così come per l’incontro tra il protagonista ed il suo grande amico e collega di sempre: in questo caso si scade addirittura nello stucchevole.
Prodotto interessante, ben scritto, ben interpretato e con un importante tema universale, ma decisamente sopravvalutato. Cosa che, però, capita fin troppo spesso. In Italia come all’estero.
Piccola perla del lungometraggio: il riferimento alle origini del cinema, mediante la presenza dei fratelli Lumière che si accingono a filmare la coppia di clown. Il filmato originale ci verrà riproposto, in seguito, appena prima dei titoli di coda. E, si sa, scelte del genere non possono che deliziare lo spettatore particolarmente cinefilo.
Marina Pavido