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Manta Ray

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VOTO: 7.5

Un complesso racconto metaforico dedicato ai Rohingya

Un giovane thailandese conduce un’esistenza triste e solitaria. Abbandonato dalla moglie per un militare benestante, prigioniero della routine del proprio lavoro quale marinaio di un battello da pesca, si reca spesso e segretamente in un bosco per seppellire una gran quantità di cadaveri. Nel bosco ci sono anche strane pietre preziose che si illuminano di notte e che il pescatore raccoglie grazie a un suo rodato sistema di ricerca. Proprio durante una di queste sortite trova un uomo gravemente ferito e, generosamente, decide di salvarlo curandolo personalmente e seguendone la difficile convalescenza. Questi, una volta ripresosi, non è in grado di comunicare: non parla e sembra non capire nulla di quanto gli si dice, non è in grado di indicare il proprio nome, nè da dove viene, nè cosa gli è accaduto.
Il pescatore, interpretato da Wanlop Rungkumjad (attore molto famoso in patria), propone dunque allo straniero di vivere con lui, ospitandolo infatti ha finalmente qualcuno con cui parlare, cui narrare tutti i suoi malesseri, i suoi problemi e le amarezze quotidiane. Durante uno di questi lunghi monologhi (il suo nuovo coinquilino sembra ascoltare anche senza capire e, ovviamene, non risponde mai) egli decide di dare un nome al suo amico: Thongchai, in onore di un popolare cantante locale. E’ una scelta singolare perché l’attore che interpreta Thongchai, sebbene sia questa la sua prima esperienza cinematografica, non è sconosciuto nell’industria dell’entertainment, si tratta infatti di Aphisit Hama, un DJ di Bangkok ed un’artista nel campo del fashion style. Questa sorta di ritrovata armonia casalinga, per quanto bizzarra, permette al pescatore (di cui non sapremo mai il nome) di ritrovare il sorriso ma, sfortunatamente, le cose non durano. Dopo essersi rifiutato di tornare a seppellire cadaveri nel bosco, il nostro scompare in mare e, a uno sconsolato Thongchai, il comandante del peschereccio fornisce una risposta sbrigativa e lacunosa.
Questi due misteri, queste due linee narrative, raccontano una storia più ampia e più drammatica e, quando d’improvviso la moglie dello scomparso pescatore (interpretata dalla cantante Rasmee Wayrana) si ripresenta a sorpresa alla porta di casa, la vicenda si complica ulteriormente.
Manta Ray di Phuttiphong Aroonpheng, al suo primo lungometraggio, ha vinto il premio come miglior film nella sezione Orizzonti della 75ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed è in realtà una complessa metafora, un lungo racconto che sembra dire qualcosa ma che, aldilà di tutto, è un continuo rimando di simboli, allusioni e denunce politiche per una situazione spaventosa quale quella che vive il popolo Rohingya, cui Manta Ray è dedicato già in apertura.
L’anteprima per la stampa, non a caso ospitata dallo “Spazio Apollo 11” del multietnico quartiere Esquilino di Roma, è stata infatti impreziosita dall’intervento in sala di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, che parla di una vicenda umana terribile, di un popolo che nella Repubblica del Myanmar, un tempo conosciuta come Birmania, vive un genocidio e una espropriazione di massa delle proprie terre. A partire dal 2017 i militari, supportati da fazioni di buddhisti ultra-conservatori, hanno colpito duramente i Rohingya, compiendo massacri, stupri, saccheggi ed eccidi di ogni genere, costringendo i sopravvissuti alla fuga. Sebbene la maggior parte dei rifugiati si trovi oggi in Bangladesh, si parla di circa un milione di persone che vivono in condizioni insopportabili, sono in molti anche quelli che cercano la salvezza verso gli altri paesi dell’area tra cui, appunto, la Thailandia. Questi viaggi della speranza, che avvengono principalmente via mare, finiscono molto spesso in tragedia e non è raro trovare cadaveri di Rohingya sulle spiagge.
Si tratta di un popolo soprattutto musulmano che, in Thailandia come altrove, viene sfruttato come forza lavoro in virtù della loro condizione svantaggiata di rifugiati. Il film denuncia questa situazione vergognosa che continua ad avere luogo sotto gli occhi della comunità internazionale e per la quale non pare esserci soluzione “nè a breve nè a medio termine” come sottolinea amaramente Noury.
Il misterioso Thongchai altri non è che la personificazione di ogni Rohingya esiliato, costretto a vivere da straniero in terra straniera, magari accolto ma mai in realtà parte della società che lo ospita. E’ una sorta di invisibile, qualcuno che arriva nelle nostre vite e che può assumere qualsiasi forma, qualsiasi ruolo, trattato in modo superficiale e, anche quando aiutato, relegato a ruoli che non gli appartengono o che gli vengono comunque assegnati arbitrariamente, ruoli ai quali non può sottrarsi perché incapace di avere altre scelte a sua disposizione. In tutto questo, nonostante una parvenza di momentanea felicità, non c’è alcuna reale consolazione per la tragedia che il suo popolo vive, non c’è giustizia e, in fondo, rimane circondato dalla diffidenza altrui. Pur salvato dalla morte, il Rohingya oggi rimane solo, inascoltato, incapace di comunicare, di avere un proprio compito nella società. E’, appunto come Thongchai, un individuo senza voce, senza un vero nome e senza alcuna possibilità di inserirsi compiutamente altrove, usato quando e dove serve ma mai realmente parte di qualcosa e, dunque, destinato a tornare nel virtuale niente da cui è giunto.
Come la manta, la creatura marina cui si rifà il titolo del film, che in un momento di tempesta, sentiamo dire dal pescatore, si aggrega attorno a qualcuno e trova un rifugio ma che poi, passata la bufera, riprende da sola il mare svanendo nel nulla.
Manta Ray ha una notevole potenza visiva, Aroonpheng ha grandi capacità nel trovare le inquadrature, nel seguire i suoi personaggi durante il quotidiano, nello scrutare i loro volti e i loro sguardi tristi, nell’usare sapientemente una fotografia suggestiva, consegnandoci una storia dove le miserie umane avvengono sullo sfondo della bellezza selvaggia della Thailandia, altra protagonista grazie alle splendide sequenze che ne immortalano la natura. La scena in cui le pietre preziose del bosco, le dimenticate e abbandonate anime dei morti, prendono vita la notte (e con loro le vere voci Rohingya) è un momento di grande poesia e meglio di ogni altra sottolinea l’approccio onirico al sottotesto.
Va detto che, sgombrando il campo da ogni ambiguità, non è questo un film per il grande pubblico che, oltretutto, dovrebbe avere quantomeno una conoscenza minima della situazione che vivono oggi i Rohingya per comprenderlo pienamente, una cosa purtroppo non scontata. La difficile lettura metaforica a parte, è un’opera che, come capita nel cinema asiatico, è fatta di lunghissime sequenze, di situazioni che si protraggono con ritmi estremamente lenti, dove i dialoghi sono pochi e comunque laconici. Abbiamo quindi una pellicola che richiede una elevata capacità di attenzione da parte dello spettatore, una continua concentrazione per i gesti, per i significati diversi da quelli per così dire letterali, un totale desiderio di farsi portare per mano del regista che ha i suoi tempi e le sue modalità. Una esperienza cinematografica dunque ricca ma obiettivamente complessa, che non può piacere a tutti e il cui nobile messaggio, soprattutto, può non essere immediatamente comprensibile anche per lo spettatore più attento.

Massimo Brigandì

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