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Making of

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VOTO: 7,5

Il cinema è una droga

In uno degli ultimi, sconsolati dialoghi tra due dei protagonisti del film, il produttore dice al regista: “Il cinema è una droga”. Potrebbe apparire un’affermazione banale, scontata. E invece tale frase finisce per racchiudere il senso ultimo dell’opera, concepita attorno a quella pericolosa miscela di passione, maniacalità, coinvolgimento emotivo e disturbi ossessivo-compulsivi, che un set cinematografico può a volte rappresentare.
L’autore, Cédric Kahn, ci aveva già abituato in passato a un certo eclettismo, tale da fargli riadattare Moravia (La noia, 1998) o da fargli rielaborare tracce di genere (nel 2004 Luci nella notte, da un romanzo di Georges Simenon, prima ancora Roberto Succo, morboso “biopic” ispirato alle poco commendevoli imprese di un serial killer italiano) più o meno con la stessa disinvoltura.
Qui, come il titolo Making of esplica con sufficiente chiarezza, il cineasta francese ha voluto inerpicarsi su un terreno scivoloso ma di sicuro fascino, il meta-cinema, dimostrando di avere le spalle larghe; abbastanza larghe, da sostenere il non facile confronto con autentici capolavori, su tutti Effetto notte dell’illustre connazionale François Truffaut…

Perché nel complesso l’operazione ci è parsa riuscita, anzi, parecchio riuscita? Innanzitutto perché Cédric Kahn nel movimentare a dismisura il set fittizio che fa da sfondo al suo lungometraggio ha saputo cogliere lo “spirito del tempo” (o anche Zeitgeist, giocando a fare i colti), così da immergere le postulate riprese di un intenso dramma operaio in quel clima schizofrenico che racconta molto bene le contraddizioni del presente; e le racconta alternando sfrontatamente sullo schermo malesseri sociali profondi, residuali utopie, ruolo dell’artista e dell’intellettuale posto in discussione da tempo, fraintendimenti e incomprensioni dall’esito imprevedibile, tutto però improntato a una leggerezza e a un’ironia che permettono poi agli spettatori di ridere della catastrofe in atto.
Un raffronto andrebbe quindi fatto anche con Boris, serie (e film) di culto in Italia, ai cui scalcinati eroi i personaggi di Making of finiscono per assomigliare, almeno a tratti, in modo decisamente tragicomico. Un caso eclatante è il protagonista con atteggiamenti da “primadonna”, la cui tendenza a strafare sul set genera di volta in volta tensioni evitabilissime e qualche gag davvero esilarante.

Tutte poi azzeccatissime, le scelte di casting avvallate da Cédric Kahn: a partire proprio dal navigato e ancora una volta impeccabile Denis Podalydès, che anche per l’aver frequentato a lungo set “impegnati” come quelli di Guédiguian, Haneke e Tavernier sa evocare con la sua sola presenza un certo tipo di cinema. Il ruolo del cineasta militante in rotta col più cinico mondo di oggi gli calza insomma a pennello. E attorno a lui si muove tutta una sarabanda di tecnici, comparse, produttori aziendalisti, attrici di polso e aspiranti film-maker, il cui continuo passare dalla vita reale alle riprese di un film ritenuto importante, in quanto ricalcato sull’ennesima storia di sfruttamento dei lavoratori nell’occidente capitalista, crea cortocircuiti irresistibili e quegli inevitabili spunti di riflessione, suggeriti però al pubblico con apprezzabile e sorniona ironia. Un po’ come se l’umanità dei film di Ken Loach o di Guédiguian stesso, trapiantata in una cornice meta-cinematografica così curata, sfaccettata e dinamica, fosse convolata a giuste nozze coi ritmi da vaudeville e le venature amarognole di una commedia cui Cédric Kahn ha saputo conferire attualità, stile e spessore.

Stefano Coccia

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