Popoli stanziali e popoli nomadi, in un futuro post-apocalittico!
And, O you mortal engines, whose rude throats / Th’immortal Jove’s dread clamours counterfeit
(E voi, macchine di morte le cui aspre gole / contraffanno il fragore tremendo dell’immortale Giove)
William Shakespeare, Otello
Nel bene e nel male, stiamo vivendo gli anni della Brexit. I media occidentali, gonfiando la portata dell’evento con previsioni tanto catastrofiche da risultare a volte ridicole, non fanno altro che criticare aspramente la scelta del popolo britannico, condannandone a priori la svolta sovranista e isolazionista.
Ebbene, non aspettatevi da un blockbuster come Macchine mortali chissà quali profonde riflessioni a riguardo, poiché il taglio conferito a tale racconto cinematografico rimane in primo luogo fumettistico e avventuroso, ma vi è un dato di fondo inoppugnabile: sullo schermo abbiamo visto una Londra del futuro lanciata “in direzione ostinata e contraria”, desiderosa cioè non di isolarsi dal resto dell’Europa, ma di attraversare La Manica e mettere piede nel Vecchio Continente per depredarlo delle sue risorse, così da rilanciare un’economia fatiscente. “Mettere piede” nel senso più letterale possibile. Sì, perché nel futuro (molto) remoto immaginato dagli autori l’umanità ha dovuto superare una cesura estremamente traumatica, la cosiddetta “Guerra dei Sessanta Minuti” (in pratica un olocausto nucleare così violento da deformare la Terra, persino nel suo assetto geologico più profondo, in un lasso di tempo breve quanto un singolo episodio de L’amica geniale), dalle cui rovine è emersa una nuova civilizzazione imbevuta di “darwinismo sociale” e raccolta in città nomadi più o meno mastodontiche, che grazie a ingegnosi meccanismi percorrono in lungo e in largo il pianeta alla ricerca di città più piccole da inglobare e sottomettere. Sono queste le “città trazioniste”, città-stato con differenze di classe assai accentuate ed esponenti delle Gilde più forti a determinarne gli equilibri. Ma ad esse si contrappone una Lega Anti-trazionista, con floridi e sostanzialmente pacifici insediamenti stanziali, posti in gran parte al riparo di una potente linea difensiva ribattezzata Shield-Wall.
Tornando per un attimo al “fantasma” della Brexit e ai possibili corollari “globalisti”, gli sviluppi del racconto potrebbero causare seri dubbi e un po’ di sconcerto ai sostenitori della sua perniciosità, dato che la spensierata politica “imperialista” della futuribile Londra in marcia attraverso l’Europa continentale causerà, per la smisurata ambizione dei suoi leader (in primis il fosco e carismatico villain Thaddeus Valentine, impersonato con classe da Hugo Weaving), non pochi problemi alla stabilità mondiale. Insomma, nella city viaggiante qualche eroe solitario ma non pochi londinesi arroganti e privi di scrupoli, a creare scompiglio.
Come accennavamo prima, però, a parte il background accattivante e non privo di spunti da approfondire, Macchine mortali è di base un “fumettone” cinematografico il cui appeal primario risiede nella spettacolarità dell’impianto visivo, nelle mirabolanti scenografie digitali, nella felice caratterizzazione di alcuni personaggi e in quella estetica steampunk, tornata evidentemente di moda, resa qui tramite iperboli ancora in grado di sedurre lo sguardo. Ispirato a un romanzo fantastico per ragazzi di Philip Reeve, il film porta la firma dell’esordiente neozelandese Christian Rivers, particolarmente a suo ago nelle scene d’azione e nei frangenti più romantici, al cui fianco ritroviamo però un mentore d’eccezione: il connazionale Peter Jackson. Già artefice della meravigliosa trilogia del Signore degli anelli, il produttore e sceneggiatore di questo impegnativo lungometraggio si sarà senz’altro divertito a ritrovare, come location di un altro immaginifico racconto, certi scenari naturali della sua Nuova Zelanda, tant’è che pare abbia anche girato diverse sequenze alla guida della seconda unità. Momenti di amarcord, nell’emisfero australe. Ci piace comunque pensare che pure lo sfacciato citazionismo riscontrabile in più momenti sia, almeno in parte, da ricondurre alla poetica di Peter Jackson.
Citazionismo, croce e delizia di Macchine mortali. Se a tratti l’elemento derivativo si fa sentire un po’ troppo, ciò che in qualità di intrattenimento non privo di anima ci ha conquistato è, in fondo, proprio questo: l’aver stabilito le coordinate di un universo fantastico, distopico, post-apocalittico, le cui modalità rappresentative rivelano alcuni sprazzi di originalità e autentica meraviglia, attingendo per il resto con ingordigia a un serbatoio piuttosto ampio dell’immaginario.
Ci si aggrappa per esempio a certi archetipi di Star Wars con un pizzico di ingenuità, che per altri versi può risultare adorabile, nel mettere in scena il violento “scontro di civiltà” situato verso la fine, con conseguente regolamento di conti tra gli antagonisti principali. D’altro canto il saggio e pacifico mondo orientale posto oltre lo Shield-Wall fa molto Shangri-La. Così come la città persa tra le nuvole assieme ai suoi eroici, acrobatici piloti può ricordare certe invenzioni del grande Hayao Miyazaki, di cui torna in mente anche Il castello errante di Howl per l’idea e la foggia degli edifici semoventi. E c’è persino un “Rinato”, una specie di cyborg terrificante che per metà film dà la caccia alla protagonista, sul cui modus operandi aleggia pesantemente l’ombra di Terminator…
Alcune di queste parafrasi funzionano, altre meno. Laddove però Macchine mortali riesce ad esaltare quel look di matrice steampunk che deve molto all’animazione e al cinema fantastico giapponese, dai lungometraggi di Otomo a Goemon di Kazuaki Kiriya, il discorso comincia a farsi appassionante sul serio. Creando così la cornice ideale per le avventure dei protagonisti, tra i quali è senz’altro l’eroina sfregiata in cerca di vendetta ad averci rubato il cuore.
Stefano Coccia