Liceali modello
Prologo. Un classe di studenti al lavoro sui banchi di scuola in un liceo qualsiasi di una non specificata località transalpina. Il professore che li sorveglia si avvicina alla finestra. Guarda fuori. La apre. Sale sul parapetto. Si getta nel vuoto. Un tonfo sordo. I ragazzi accorrono ad osservare quel corpo disarticolato sdraiato nel cortile.
Si apre così un mystery in piena regola come L’ultima ora, opera seconda di un cineasta decisamente da tenere d’occhio come il francese Sébastian Marnier. Sospeso tra dramma psicologico e thriller raggelato, il lungometraggio si dimostra sin dalle prime sequenze erede degnissimo di quel cinema della distillazione dell’angoscia che ha visto in Roman Polanski il proprio nume tutelare. Marnier – anche sceneggiatore – per tre quarti di film conduce abilmente lo spettatore in quel territorio indistinto dove regna la più totale indeterminatezza: Pierre (un ottimo Laurent Lafitte, già apprezzato in Elle di Paul Verhoeven nel ruolo dello stupratore “della porta accanto”), il supplente che ha sostituito l’insegnante del tentativo di suicidio nell’incipit, instaura infatti un rapporto a dir poco difficoltoso con una parte degli studenti della classe. Sono loro gli artefici delle telefonate mute che l’uomo riceve, assieme a piccoli furti in crescendo? Oppure si tratta solo di una forma acuta di paranoia del protagonista? Di certo l’atteggiamento dei sei ragazzi, prossimi alla maturità scolastica con un rendimento eccellente, desta più di qualche perplessità. Pierre li tiene d’occhio e scopre in loro comportamenti anomali tipo quello di restare a lungo sotto acqua o rimanere in equilibrio su ruspe sospese nel vuoto, sorretti solo dai compagni.
Oltre non è assolutamente il caso di rivelare, ma appare evidente come Marnier si lasci ispirare dalla pittura impressionista – l’ambientazione del film è extraurbana, con splendidi panorami bucolici sui quali però troneggia un’enorme costruzione che sembra un qualcosa di simile ad una centrale termo-elettrica o addirittura nucleare – per introdurvi una sferzata di nichilismo senza speranza, palesata da una fotografia plumbea, allorquando i ragionamenti degli studenti “eletti” emergono oltre ogni ragionevole dubbio.
L’effetto sul film è assai suggestivo sia dal punto di vista della forma che del messaggio trasmesso. Tanto più che Marnier, forse forzando un poco la mano al già di per sé inquietante apparato narrativo, inserisce immagini di autentici immani disastri in sequela – undici Settembre 2001 compreso – in grado di sovrapporre sia nel gruppo di ragazzi che nello sguardo spettatoriale la percezione di un mondo ormai in inarrestabile degrado fisico e morale. Pierre si troverà così a fronteggiare una minaccia tanto inaspettata poiché imprevedibile nella propria origine. Ineluttabile da apparire un’evoluzione persino logica nell’ambito di un percorso illuminista virato in negativo, fino ad un finale dal sapore apocalittico ma del tutto pertinente a quanto raccontato sino a quel momento.
Tutte suggestioni che rendono L’ultima ora – più evocativo e intrigante il titolo originale, cioè L’heure de la sortie, L’ora d’uscita – un’opera sinuosa e sfuggente, in grado di calamitare l’attenzione proprio perché costruita secondo rigidi criteri “cerebrali” che trovano un quasi perfetto contraltare in una messa in scena in sottrazione che riesce a dialogare direttamente con la psiche di coloro che guardano, al punto di incistarsi sottopelle e rimanervi a lungo. Per un lungometraggio da recuperare senza esitazioni dopo una presentazione alla settantacinquesima Mostra del Cinema di Venezia – peraltro in una sezione collaterale – passata davvero un po’ troppo in sordina.
Daniele De Angelis