Una donna e tanti misteri
Tornato in Europa, Paul Verhoeven fa incontrare le sue ossessioni, la sessualità malata connessa alla violenza, con quelle di quel cinema francese ed europeo che passa da François Ozon a Michael Haneke, incarnandole nel sempre più conturbante corpo di Isabelle Huppert, musa tra gli altri di Alain Robbe-Grillet e Claude Chabrol, che ha dato vita già a personaggi hardcore come in La pianista.
Elle inizia con le urla della protagonista, Michèle, aggredita e stuprata da un uomo nero, mascherato, che si è introdotto nella sua elegante casa rompendo una vetrata. Il gatto assiste alla violenza con sguardo sornione, come a suggerire che quelle immagini terribili vadano interpretate in altro modo. In effetti Michèle, dopo la fuga del suo aggressore, si ricompone senza una piega, ripulisce il pavimento dai cocci di vetro e ordina del sushi. Non sporge denuncia per l’accaduto che racconta con indifferenza. Con il suo violentatore anonimo, che tornerà a farle visita, si impegnerà in un gioco, anche nella ricerca della sua vera identità, da gatto e topo dove però non si capirà bene chi sia effettivamente il predatore e chi la preda. Nelle progressive rivelazioni sulla vita di Michèle la vediamo in una riunione della società di videogiochi di cui è dirigente, mentre, con fare professionale, dopo la proiezione di una scena in digitale dove una donna viene stuprata e smembrata da un mostro tentacolare, giudica le espressioni orgasmiche di quel personaggio femminile troppo timide. E poi la successiva scoperta sarà quella che il padre di Michèle è stato un serial killer, carnefice di tanti bambini, negli anni Settanta, ed è detenuto in carcere. Verhoeven mette in scena ancora i mostri che si annidano dietro il perbenismo di una società borghese, dove c’è chi recita le preghiere alle cene natalizie. Un’aristocrazia che celebra i suoi fasti brindando, in tavolini in giardini decorati con sculture astratte, con champagne Piper-Heidsieck, i circolini dove ci si racconta dei safari in Kenya. Un ambiente altolocato e glamour dove i personaggi usano la propria posizione per ottenere benefici sessuali, per soddisfare bisogni neanche più inconfessabili. L’anziana madre di Michèle che esibisce il suo aitante toy boy, la compagna del figlio che partorisce un bambino di colore sotto l’occhio divertito dell’amico, sempre di colore. Due coppie speculari: quando la madre annuncia il suo matrimonio con il giovanotto, con le sguaiate risate di Michèle, non possiamo che immaginare che dietro l’unione di facciata, la vita sessuale del marito sarà in realtà indirizzata altrove, come quella della compagna del figlio.
Il cinema d’autore e quello di genere, la sensibilità europea e Hollywood: in Verhoeven queste due dimensioni sono sempre compresenti, anche quando è una delle due a prevalere. Così il violentatore mascherato sembra uscito da quel mondo vintage di criminali in costume dei feuilleton di genere o dei fumetti, da Fantômas a Diabolik. Un universo immaginifico richiamato anche dal cognome del padre, quindi anche di Michèle, Leblanc, come quello del Maurice Leblanc creatore di Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo. Nella figura del violentatore mascherato tornano i Robocop, i Douglas Quaid di Atto di forza ma anche l’uomo invisibile de L’uomo senza ombra. Nel nascondere la propria identità, con l’invisibilità o il mascheramento, si cela il senso di onnipotenza e l’istinto a compiere azioni malvagie protetti dall’anonimato, e svincolati dalle regole morali di convivenza, come Platone fa dire a Glaucone nel secondo libro del dialogo la Repubblica, opera d’ispirazione dichiarata da Verhoeven appunto per L’uomo senza ombra.
L’autore che ha saputo meravigliare con la genialità degli effetti speciali dei suoi film di fantascienza, sembra ora voler prendere le distanze dalla paccottiglia in CGI imperante: nel tornare ad abbracciare il cinema europeo, Verhoeven mette in scena la piattezza e pochezza, negli inserti dei videogiochi prodotti dalla società di Michèle, dei moderni film in computer grafica. Quelle immagini virtuali fanno il paio con quelle, sempre in digitale, dell’elaborazione con strumenti medici, del sistema circolatorio della madre di Michèle, laddove si evince, con immagine da videogioco, l’aneurisma che la porterà alla morte. Siamo ancora dalle parti della scarnificazione, dell’esposizione anatomica degli organi interni, di riduzione all’osso di L’uomo senza ombra, in un’estetica della morte e dell’autopsia, che tornerà nella messa a nudo del cervello dell’uomo mascherato, quando il figlio gli spaccherà la testa. Verhoeven vuole scavare nella psiche dell’uomo come nel suo corpo, nella raffigurazione di una sessualità malata e degenerata alla Crash: l’uomo che accarezza, con la mano fasciata per la ferita con la forbice infertagli da Michèle, la gamba della donna, pure fasciata. Un momento peraltro di conferma definitiva della vera identità dell’uomo mascherato. Quell’estetica di sesso, carne e scarnificazione che, come in Cronenberg, mischia cicatrici, ferite, sventramenti del corpo con i suoi fisiologici orifizi.
Fino a un certo punto del film viene il dubbio che le aggressioni a Michèle siano solo dei suoi momenti onirici, una sublimazione delle sue perversioni, la proiezione dei desideri inconfessabili di una donna. Dubbio che la filmografia stessa di Verhoeven, con Atto di forza ci autorizza ad avere, mentre film come Il quarto uomo e Basic Instinct suggeriscono che sia la stessa Michèle a condurre, manipolare e orchestrare il gioco con l’uomo mascherato. La mantide, la dark lady verhoeveniana, colei che virtualmente tiene il punteruolo rompighiaccio dalla parte del manico.
Giampiero Raganelli