Un “odi et amo” sui campi da tennis
Il leggendario mondo della Formula Uno in Ferrari: Race to Immortality. Il pattinaggio su ghiaccio in I, Tonya, lungometraggio incentrato sul torbido e controverso caso di Tonya Harding. A ben vedere l’edizione 2017 della Festa del Cinema di Roma si sta distinguendo anche per il proliferare, tra fiction e documentari, di interessantissimi film sportivi. E quasi a raddoppiare l’impressione avuta con l’uscita in sala de La battaglia dei sessi, sembrerebbe proprio che possa essere il tennis, tra le varie discipline, a farla da padrone. Si, perché in attesa dell’assai succulento Borg McEnroe, che resta indubbiamente il piatto forte, è stato un buon documentario realizzato sempre in ambito tennistico ad attrarre la nostra attenzione: Love Means Zero di Jason Kohn. E per chi ama questo sport Nick Bollettieri è una figura che, nel bene e nel male, non può lasciare indifferenti.
L’uomo. L’allenatore. Il tiranno. Il talent scout. L’affarista. Il demiurgo che ha sempre voluto ricodificare l’atteggiamento in campo ed il gioco stesso dei giovanissimi che si accostavano, nel centro da lui creato, a questa meravigliosa disciplina sportiva. Sono molte le sfaccettature del personaggio che Jason Kohn ha saputo far emergere, per quanto si faccia strada a tratti l’idea che sia proprio l’intervistato, Bollettieri, a orientare la conversazione nel modo a lui più congeniale, rivelando così ancora una volta quello spirito accentratore, persuasivo, spavaldo e magnetico che pare rispecchiarsi, del resto, nelle così spartane metodologie di allenamento e nell’aggressività da fondo campo con cui ha sempre cercato di rendere più competitivi i propri allievi.
Il suo concetto di gioco può essere materia di discussione. La sua personalità no, invece, al pari dei risultati ottenuti. Ci sono Andre Agassi, Monica Seles, Maria Sharapova, Jim Courier e le sorelle Williams tra i campioni passati per la Nick Bollettieri Tennis Accademy. A volerli sommare, si va ben oltre il centinaio di titoli del Grande Slam, come afferma lo stesso protagonista in uno dei momenti più sapidi della lunga intervista. Ma tra i tanti motivi di crescita e di rivalità sportiva introdotti nel racconto, il particolarissimo orizzonte degli eventi rappresentato dal crepuscolare confronto avvenuto a Wimbledon, in finale, tra lo stesso Agassi (il trasgressivo campioncino da lui impostato e poi abbandonato, tennisticamente parlando, al proprio destino) ed un Boris Becker (asso del gioco a rete formatosi quindi con un tennis assai differente, ma approdato alla corte di Bollettieri per recuperare lo smalto perduto) in cerca di rivincite, è l’elemento destinato ad imporsi con maggior forza.
Del resto è proprio quello speciale, ed infine problematico rapporto creatosi tra il coach e uno tra i suoi discepoli più rappresentativi, ossia Agassi, il vero fulcro di una narrazione che si nutre di questa specie di ”odi et amo” come di un leitmotiv appassionante, sia sul versante puramente agonistico che a livello umano, formativo. E per quanto, tirate le somme, si possa supporre che scavando maggiormente in profondità il documentario avrebbe potuto generare un’aneddotica persino più fitta, rivelatrice, la visione di Love Means Zero finisce per soddisfare sia coloro che il tennis lo hanno sempre seguito con passione, sia gli spettatori meno coinvolti a livello sportivo ma disposti a lasciarsi sedurre da un confronto caratteriale davvero intrigante.
Stefano Coccia