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Tonya

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VOTO: 7.5

Tutti al “fresco”

Sportivi o no, chi non ha sentito almeno una volta parlare di Tonya Harding e delle sue indimenticabili evoluzioni sul ghiaccio. Pattinatrice artistica statunitense di fama mondiale, passò alla storia per essere stata la seconda donna (la prima americana), dopo la giapponese Midori Itō, ad eseguire un triplo axel in una competizione ufficiale. Bastò, infatti, quell’impresa a fare incidere il suo nome a caratteri cubitali negli almanacchi di tutti i tempi. Ma suo malgrado, la Harding finì anche su altre cronache che nulla avevano a che fare con trionfi e gesta sportive. Conosciuta per il temperamento focoso, infatti, Tonya fu protagonista di una carriera eccezionale, ma anche di uno degli scandali più grandi della storia degli Stati Uniti. La celebre atleta finì sulle pagine dei quotidiani di tutto il mondo con l’accusa di essere la responsabile dell’aggressione della rivale Nancy Kerrigan. Quelle accuse le costarono davvero caro, sia in termini umani che agonistici.
Cresciuta in un clima di perenne conflitto con una madre violenta, la ragazza dovette combattere per tutto ciò che aveva. Malgrado fosse una pattinatrice tecnicamente compiuta, convincere i giudici si dimostrò assai difficile: venne criticata infatti per la sua mancanza di maestria e per la bellezza sciatta. Quando incontrò Jeff Gillooly, questi le garantì la tanto attesa fuga dalla madre, una voce incoraggiante nel suo angolo e, fatalmente, una serie di connessioni con uno squallido sottobosco.
Tutto questo e molto di più è diventato il tessuto narrativo e drammaturgico di una pellicola che gira vorticosamente e pericolosamente, proprio come un triplo axel, intorno alle vicende esistenziali e sportive delle quali si è, nel bene e soprattutto nel male, resa protagonista. Si tratta di un biopic a tutti gli effetti che copre un arco temporale che va dalla tenera età, quando iniziò a muovere i primi passi sul ghiaccio, al post scandalo e alle ripercussioni sulla sua vita e sulla sua carriera. Di conseguenza, il titolo non poteva che essere I, Tonya (nella versione italiana semplicemente Tonya), presentato con grandissimo successo prima al Toronto International Film Festival e poi nella Selezione Ufficiale della 12esima edizione della Festa del Cinema di Roma. Dopo l’anteprima alla kermesse capitolina arriverà nelle sale nostrane nel primo trimestre del 2018 grazie alla Lucky Red.
Per raccontare questa incredibile vicenda forse i toni della tragedia sarebbero stati a parere di molti sicuramente più adeguati. La portata del dramma umano e sportivo, tanto quanto il peso specifico degli eventi e delle dinamiche consumate, andavano in quella direzione, ma le scelte finali prese in fase di scrittura del film sono state invece ben altre. Per quanto ci riguarda, anche se ad oggi non abbiamo una riprova del contrario, tali scelte rappresentano la vera carta vincente dell’operazione. Del resto, il sospetto che il registro e i toni del racconto fossero destinati ad essere di altra natura, ossia tragicomici e non seri, era sorto già all’epoca della lettura dei credits. In tal senso, la presenza di Craig Gillespie dietro la macchina da presa trasformava di default quei sospetti in certezze.
Fatta eccezione per L’ultima tempesta, infatti, film come Million Dollar Arm, Fright Night – Il vampiro della porta accanto o Lars e una ragazza tutta sua, hanno dimostrato una vera e propria predilezione di Gillespie per la commedia e per le sue diverse sfumature. Il cineasta australiano è noto tra gli addetti ai lavori per il suo humour affilato e anticonformista, ma soprattutto per l’abilità di tirare fuori dagli attori performance quanto più oneste possibile. Queste caratteristiche insite nel Dna artistico e nel curriculum di Gillespie non potevano che riaffiorare prepotentemente anche in un film come I, Tonya, diventando di fatto il motore portante del progetto, tanto nella fase di scrittura quanto in quella della messa in quadro. Da parte sua, lo sceneggiatore Steven Rogers ha letteralmente cucito addosso al regista di Sydney storia e personaggi, plasmando il tutto alle suddette caratteristiche. E Gillespie non poteva che cogliere la palla al balzo e dare alla pellicola il suo tocco personale e riconoscibile. Il risultato è, infatti, un travolgente, a tratti irresistibile e irrefrenabile, sport-comedy, di quelli che lasciano il segno per il divertimento che il linguaggio sfrontato e lo humour nero dell’ensemble riesce a restituire a dosi massicce allo spettatore di turno. Questa ironia pompa continuamente benzina al motore del racconto, rendendolo avvincente e spassoso sin dal primo fotogramma utile, quando i footage delle interviste mettono subito le cose in chiaro su ciò che vedremo e su come lo vedremo. La componente visiva va nella medesima direzione, rivelando l’eclettismo stilistico e la varietà di soluzioni formali portate sul grande schermo da Gillespie. A riguardo, saltano all’occhio le scene sul ghiaccio e le evoluzioni della steadycam per renderle ancora più spettacolari, ma anche quando la protagonista scende dai pattini per affrontare la vita di tutti i giorni e le difficoltà dei rapporti e dei legami, la regia e la direzione degli attori danno il massimo. Tanto di cappello al cast capitanato da una bravissima Margot Robbie nei panni scomodi della Harding.
Tuttavia, sia Rogers che il regista non si sono dimenticati del lato drammatico della storia. Si sa, quando ci si confronta con delle storie vere il pericolo di mettere alla berlina il protagonista e il dolore che ha provato è sempre dietro l’angolo. Il registro più serio fa capolino nell’ultimo quarto della timeline, quando la Harding si trova a fare i conti con la giustizia sportiva ed extra-sportiva. Un cambio di registro, però, che non va letto erroneamente come un pentimento da parte degli autori, bensì di una chiusura necessaria per dare un senso ancora più forte a quanto raccontato.

Francesco Del Grosso

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