La vita è una marea
L’ora di porto può già contare su un piccolo ma significativo record: alla sua prima apparizione pubblica, il cortometraggio scritto (a quattro mani con Mariapia Autorino) e diretto da Dario Di Viesto, prodotto e distribuito dalla Premiere Film, ha conquistato il premio per il miglior film della sezione “Corti Puglia” alla 16esima edizione del Sa.Fi.Ter Film Festival. Ed è proprio nel corso della seconda tappa della kermesse itinerante in quel di San Severo che la nuova fatica sulla breve distanza del regista di San Vito dei Normanni ha avuto il suo fortunatissimo battesimo di fuoco nel circuito festivaliero, laddove è stato presentato in anteprima assoluta.
Lo short di Di Viesto racconta la storia del pescatore Capudemazza, che a seguito di un incidente in barca dove ha messo a repentaglio la vita del figlio, decide di non andare più in mare. Dieci anni dopo, una scoperta riguardante suo figlio riaccende nel pescatore qualcosa di sopito. Ovviamente non saremo noi a rivelarvi cosa, lasciando alla visione il compito di farlo. Ciò che possiamo anticiparvi è che si tratta di un’opera nella quale convergono temi e stilemi ben precisi che ne stratificano tanto la scrittura quanto la messa in quadro, caricando lo script e la sua trasposizione di un “magma incandescente” di significati e significanti. In tal senso, il titolo nella sua possibile rilettura metaforica, celata sotto la superficie della definizione scientifica, che identifica “l’ora di porto” come il ritardo con il quale si manifesta il massimo dell’alta marea rispetto al passaggio della Luna su un determinato luogo, è già di per sé una lettera d’intenti e una cartina tornasole di quello che da lì a poco scorrerà sullo schermo. Una rilettura che consegna alla platea un lavoro realismo e lirismo si mescolano senza soluzione di continuità.
L’ora di porto è un dramma che imprime sulla timeline e poi sulla retina dello spettatore di turno un flusso di emozioni diverse che arrivano al fruitore mediante silenzi, gesti, sguardi, parole e improvvise folate di violenza. Queste irrompono prepotentemente nel racconto, spezzando la modalità narrativa dominante che ha nella dilatazione e nella sospensione temporale il carattere pregnante. Ciò determina da una parte il materializzarsi di passaggi di poetico lirismo e dall’altra altrettanti di forte verità, dove il romanzo di formazione e le tematiche classiche annesse (identità, formazione, ecc…) si scontrano con il conflitto familiare e il confronto faccia a faccia tra un padre e un figlio, generando un cortocircuito emozionale. Il limite se mai sta nella durata, con qualche digressione di troppo che nell’economia del racconto vanno a riempire, ma non ad arricchire. Forse qualche minuto in meno avrebbe contribuito alla causa distributiva e alleggerito la fruizione. Una fruizione che, al contrario, è arricchita dall’intensa e dolorosa performance davanti la macchina da presa di Fabrizio Ferracane nel ruolo di Capudemazza.
Francesco Del Grosso