Genesi
“La Fattoria degli Animali” di George Orwell. Un capolavoro della letteratura ancora oggi (tristemente) attuale. Ma cosa ha portato alla genesi di tale romanzo? In pochi, purtroppo, ricorderanno il nome di Gareth Jones, giovane giornalista gallese che con le sue inchieste ha a suo tempo ispirato proprio Orwell nella stesura del suo libro. A mettere in scena la sua storia ha pensato, dunque, la regista Agnieszka Holland con il suo Mr. Jones (nella titolazione italiana L’ombra di Stalin), presentato in Concorso alla Berlinale 2019 e con un cast dal respiro internazionale.
Gareth Jones (impersonato da James Norton) ha da poco lasciato l’incarico come consulente per conto del Governo di Lloyd George. Durante il suo mandato aveva avuto modo di intervistare Adolf Hitler. Da sempre interessato al processo di modernizzazione dell’Unione Sovietica attuato da parte di Stalin, Jones vorrebbe incontrare anche quest’ultimo, ma, tra una vicissitudine e l’altra, intraprenderà un lungo viaggio in Ucraina, dove avrà modo di vedere in che condizioni sono costretti a vivere i suoi abitanti a causa dello stalinismo. Tale inchiesta, per quanto necessaria, si rivelerà anche oltremodo rischiosa per la vita e la carriera dello stesso Jones.
Un capitolo di storia fondamentale – seppure ancora oggi sconosciuto ai più – questo messo in scena da Agnieszka Holland nel suo L’ombra di Stalin. Un episodio del secolo scorso messo in scena in modo impeccabile e prevalentemente classico, dove una grande attenzione ai dettagli, primi piani sul volto del protagonista e ambienti lussuosi che si contrappongono fortemente alla povertà dei villaggi in cui finisce Gareth Jones fanno da protagonisti assoluti.
Una fotografia cupa, grigia sta a trasmetterci subito un forte senso di claustrofobia. Un senso di claustrofobia dovuto non solo al pesante clima precedente la Seconda Guerra Mondiale, ma anche – e soprattutto – all’impossibilità di dire la propria, di far sì che la verità possa finalmente venire a galla. Gareth Jones è un uomo solo. Nessuno (o quasi) sembra volergli dare credito o, comunque, dargli la possibilità di raccontare al mondo intero ciò di cui è venuto a conoscenza. E, di fianco a lui, ai suoi ideali e alla sua profonda solitudine, l’immagine – in apertura del film – di alcuni maiali intenti a consumare avidamente il loro pasto parla chiaro. Molto chiaro.
La regista, dal canto suo, ha optato in questa occasione per un approccio il più possibile simile allo stile di messinscena “mainstream”, risultando il più possibile invisibile e “neutrale” davanti alla macchina da presa, ma dimostrando di sapere perfettamente ciò di cui voleva parlarci. E, forte anche di un commento musicale ben ritmato e ben calibrato, questo suo importante e necessario lungometraggio riesce indubbiamente a colpire nel segno. In che modo è riuscito “La Fattoria degli Animali” di Orwell a cambiarci e a farci aprire gli occhi? E in che modo può il presente L’ombra di Stalin rinfrescarci la memoria? Solo il tempo potrà dircelo. Ma ancora una volta il potere politico della scrittura e del cinema viene indicato come un mezzo fondamentale per trasmettere la verità.
Marina Pavido