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Lo and Behold: Reveries of the Connected World

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VOTO: 5

Senza “Rete” di sicurezza

La divisione della filmografia di Werner Herzog in film di fiction e documentari è tanto evidente quanto controversa. Alcuni critici, noi compresi, giudicano inappropriata questa distinzione. Sul numero 462 di Cineforum del marzo 2007, ad esempio, l’autore del saggio fa giustamente notare che: “Quando Herzog gira un film di fiction fa di tutto per riportarlo alla concretezza del vissuto, di modo che l’eco del mondo reale si riverberi sulle immagini e le faccia vibrare. Viceversa quando gira un documentario è consapevole che suo ufficio non è quello di riprodurre meramente la realtà, ma di esprimerne il senso, la verità intima”. Ed è lo stesso regista tedesco a confermarlo nell’intervista rilasciata a Doug Aitken nel gennaio 2008 nella quale, a precisa domanda sull’argomento in questione, ha ribadito di prendersi quasi sempre gioco dei concetti di fiction e documentario, invertendoli e mescolandoli senza soluzione di continuità, aggiungendo: “Fitzcarraldo è il mio migliore documentario e Little Dieter Needs to Fly il mio migliore film di fiction. Non faccio una chiara distinzione tra di essi. Sono tutti film”. Si tratta dell’ennesima lettera d’intenti spedita ai lettori, ma allo stesso tempo della sacrosanta verità, utile e necessaria in primis a se stesso per dare un’identità e un’anima alla sua poetica, ma anche per consegnare una chiave d’accesso a tutti coloro che ne guardano i risultati sullo schermo, così da poter entrare nel suo modo di fare e concepire la Settima Arte.
Tuttavia esistono eccezioni alla regola e Lo and Behold: Reveries of the Connected World, nelle sale nostrane con I Wonder Pictures a partire dall’8 ottobre non prima delle apparizioni sugli schermi delle recenti edizioni del Biografilm Festival di Bologna e del Milano Film Festival nella sezione Under Screen, ne è la dimostrazione. L’ultima fatica dietro la macchina da presa del cineasta tedesco, per quanto ci riguarda riconducibile solo per esigenze di classificazione alla sua produzione documentaristica, trasgredendo di fatto alla volontà da lui più volta espressa e sottolineata nuovamente nell’intervista di Aitken di non fare alcuna differenza, è invece quanto di più classico si possa realizzare nella suddetta categoria. Questo perché delle invenzioni, delle inversioni e sopratutto delle contaminazioni dei codici e dei linguaggi, del quale si parla nelle pagine di Cineforum, non vi è alcuna traccia. In tal senso, Lo and Behold è il frutto di un processo creativo che fa riferimento a schemi basici e a modus operandi che nulla hanno a che vedere con quelli di opere come Fata Morgana, Apocalisse nel deserto e L’ignoto spazio profondo, considerati non a caso da Herzog e non solo da lui come una trilogia, in cui materiale di tipo documentaristico viene manipolato e reinterpretato fino a diventare qualcosa di diametralmente opposto: fantascienza, surrealismo, poesia. Un processo di ibridazione, questo, dove l’ambiguità tra realtà e invenzione raggiunge il massimo. Nell’opera del 2016 si assiste, al contrario, a un azzeramento quasi totale di tale costruzione, a favore di un lavoro nel quale la schematicità del racconto, la precisa leggibilità degli elementi che lo compongono e la facilità nel distinguerli, sono I caratteri fondanti. Non si è in presenza di rinnovamento della cifra stilistica, tantomeno un tentativo di fare altro che non sia quello al quale Herzog ci ha abituati da decenni, ma solo un passo falso, che speriamo equivalga a una parentesi negativa (lo stesso vale per il barcollante e ancora inedito in Italia Queen of the Desert per quanto concerne la produzione di fiction). Dopotutto una flessione è fisiologica all’interno di una filmografia così ricca di perle, per cui non ci spaventiamo più di tanto, ma nel frattempo la delusione nei confronti di un’operazione come questa è forte e non possiamo non manifestarla.
Quello firmato da Herzog in Lo and Behold non va oltre il compendio dedicato a Internet, dalla nascita sino ai giorni nostri; un compendio che a conti fatti assomiglia a una sorta di Bignami audiovisivo che sintetizza in dieci capitoli le tappe di una genesi, dell’evoluzione di quanto nato e delle sue presenti e future applicazioni, buone o cattive che siano. È l’esplorazione a volte lucida, a volte approssimativa e superficiale del mondo di Internet, un viaggio che in rare occasioni riesce a calamitare a sé l’attenzione del fruitore, in moltissime altre ad annoiare con una successione di nozioni, informazioni e tanto didascalismo. Il regista tedesco sembra aver lavorato con la mano sinistra, senza la consueta capacità di approfondire, analizzare, penetrare, plasmare e fare sua la materia tematica e umana, affidandosi a una successione di interviste a una serie di individui (esperti del settore, storici, ingegneri, pionieri e persone comuni), al repertorio e a elementi ricorrenti nelle sue produzioni documentaristiche, a cominciare dal racconto in prima persona attraverso il voice over dello stesso regista. È lui a guidarci nei meandri affascinanti e allo stesso tempo minacciosi del web, con riflessioni, racconti e interazioni con i testimoni chiamati in causa, ma rigorosamente fuori campo. In tal senso, descrive internet come “una delle più grandi rivoluzioni che noi, in qualità di esseri umani, stiamo vivendo”, lanciando alla platea anche domande profonde sul futuro, e tuttavia stempera questo entusiasmo con storie di vittime di cyber-bullismo e dipendenza; applicazioni distorte e sbagliate sulle quali recentemente si è confrontato anche il collega statunitense Alex Gibney in Zero Days.
Il tutto alla ricerca del senso e del corpus del non tangibile, ossia della Rete, labirinto sterminato nel quale ci si può imparare a muovere come un ragno o cadere in trappola come un insetto. Herzog in questa Rete ci è rimasto ingarbugliato e con lui anche tutti gli spettatori della sua ultima opera.

Francesco Del Grosso

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