Cartoline dalla Germania anni ’40
Diffidare, ancora una volta, delle coproduzioni internazionali. A maggior ragione di quelle che si ammantano nei presupposti di una qualche sembianza di impegno civile. Nel caso di Lettere da Berlino, dramma ambientato nella Germania nazista della prima metà degli anni quaranta nonché trasposizione del romanzo di Hans Fallada “Ognuno muore da solo”, si uniscono le forze produttive di Francia (che offre anche il nome del regista, l’ex attore Vincent Pérez in realtà svizzero di nascita ma transalpino di adozione professionale), Gran Bretagna (la coppia di protagonisti Emma Thompson e Brendan Gleeson) e, ovviamente, Germania, con le location e Daniel Brühl in un ruolo tipicamente alla Daniel Brühl. A giocare a sfavore del film c’è poi la casistica dei lungometraggi sul nazismo, i quali spesso offrono il fianco ad una ricostruzione di maniera – se non si è Quentin Tarantino o similari – che con il pilota automatico di una narrazione sin troppo prevedibile separa chiaramente i buoni dai cattivi evitando quelle ambiguità di fondo sottese in ogni spaccato di umanità. Persino quella bestiale che ha contraddistinto il periodo hitleriano. Ed è proprio su questo versante che Lettere da Berlino inanella il primo fallimento, mancando completamente il bersaglio di una ricostruzione quanto più fedele possibile dell’opprimente atmosfera che instillava nella vita quotidiana la dittatura in quegli anni. Anzi mettendo insieme, nella fase preparatoria del film, solamente una compilation di situazioni viste e straviste in qualsiasi opera dedicata alle malefatte naziste.
La trama prende comunque spunto dalla morte di un giovane soldato tedesco in terra francese, il quale si scoprirà subito dopo essere figlio unico della coppia composta per l’appunto da Emma Thompson – congelata per l’intero film in un’espressione sofferta da madre addolorata – e Brendan Gleeson, se non altro imperturbabile come richiesto dalla parte. La coppia decide dunque una curiosa forma di vendetta nei confronti del regime scrivendo cartoline in grado di mettere in luce i numerosi elementi negativi del nazismo e divulgandole tra la popolazione berlinese. Un tema assai suggestivo, quello del potere della diffusione “amanuense” del giusto ideale in tempi di voracità “internettiana” come quelli che stiamo vivendo, che però funge da mero pretesto narrativo ad un film che non è un thriller, non si tuffa a capofitto nel melodramma e rinuncia sin dai primi minuti a qualsiasi velleità autoriale, limitandosi ad illustrare passivamente i termini di una vicenda proprio per tali motivi incapace di appassionare. E pensare che il suddetto sottogenere di film dovrebbe contenere già in partenza l’afflato positivo dell’empatia, collocandosi il pubblico idealmente dalla parte dei cosiddetti buoni. L’ingenerosa e un po’ presuntuosa regia di Pérez invece pare rifiutare con sdegno anche quel presupposto, cancellando il pathos di una vicenda con tutti i crismi della tragedia greca in favore di un’enunciazione abbastanza scolastica dei limiti di comprensione della realtà circostante da parte di quello e di ogni altro regime succedutosi a latitudini differenti da quel momento in poi. Sprecando dunque la buona occasione di realizzare un’esemplare parabola sulla positività del pensiero capace di superare di slancio pure i bastioni della morte e dell’orrore più assoluto, messo a contrasto con l’ottusità di un nazismo come da convenzione accecato dal proprio delirio di onnipotenza. Con appunto il personaggio interpretato (male) da Daniel Brühl a simbolizzare in anticipo, assai didascalicamente, la disastrosa sconfitta a cui andrà incontro la Germania di Htiler di lì a poco.
Tutto ovvio e risaputo dunque, per un film non tanto brutto o mal realizzato e interpretato, quanto decisamente inutile nel proprio messaggio conclusivo. Un lungometraggio, al tirar delle somme, nemmeno da ricordare come lezione di una Storia che mai andrebbe dimenticata, anche se il tempo che scorre ci sta sempre più allontanando da essa.
Daniele De Angelis