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Il Clan

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VOTO: 7.5

La sacra famiglia

Beati i paesi che possono contare su cineasti capaci di guardare, senza compromessi, all’interno della parte oscura della nazione che gli ha dato i natali. Una breve perifrasi per dire che Pablo Trapero, con Il Clan, ha realizzato un film profondamente politico sull’Argentina di un passato assai prossimo e, di conseguenza, su quella di oggi. I segnali di contiguità tra la feroce dittatura militare guidato da Jorge Rafael Videla e da un pugno di altri generali privi di qualsiasi scrupolo, con la scelta drammatica e radicale della famiglia borghese Puccio di mantenere il proprio tenore di vita sociale attraverso il rapimento di persone benestanti, è infatti assolutamente evidente e persino in possesso di una propria, benché ripugnante, logica, se si pensa alle migliaia di desaparecidos fatti sparire dal regime senza lasciare traccia per motivi ideologici.
Il clan del titolo è appunto costituito da una famiglia “modello” del tranquillo paesino di San Isidro, ivi residente nella prima metà degli anni ottanta. Il capofamiglia, Arquimedes Puccio (interpretato alla perfezione dall’ottimo Guillermo Francella, gelida incarnazione del male ma anche, all’apparenza, impeccabile padre di famiglia), fascinoso uomo di mezza età completamente incanutito, ha contatti piuttosto stretti con le alte sfere di un regime che ormai avverte i primi sintomi di cedimento. Dietro le apparenze di famiglia perfettamente normale, egli gestisce, con l’aiuto di un paio di amici, un’attività criminale che conduce con la fattiva collaborazione del figlio Alex, campione di rugby, e la silenziosa complicità passiva della moglie, insegnante. Tenendo all’oscuro il resto della famiglia, divisa tra figlie femmine, un primogenito emigrato che poi farà il suo ritorno attivo nel clan ed un altro maschio, più piccolo, che sarà il primo a comprendere a fondo la situazione e a prendere le distanze da una famiglia così “unita e affiatata”. Ovviamente gli sbocchi altamente drammatici conseguenti ad una siffatta condotta saranno dietro il fatidico angolo, propiziati anche dal cambiamento politico in atto nel paese sudamericano.
Dalla cruda cronaca al cinema il passaggio scorre fluido grazie all’attenta regia di Trapero, del tutto a suo agio nell’arricchire quello che a prima vista potrebbe sembrare un gangster movie sin troppo ricalcato su modelli statunitensi – a dimostrarlo pure una colonna sonora infarcita di successi a stelle e strisce – e tuttavia carico di sottotesti in grado di infilare direttamente il dito nella classica piaga dolorosa. Raramente infatti il teorema che prevede un passaggio quasi osmotico del degrado morale da una classe dirigente a quella borghese – e viceversa, come ovvio – è stato visivamente rappresentato con tanta lucidità; mediante un montaggio serrato, fuori fuoco sempre posizionati al punto giusto della narrazione e molte altre scelte registiche tutte azzeccate, Trapero illustra una sete di potere tanto insopprimibile quanto “normale”, e perciò priva di possibilità alcuna di redenzione. Osservandolo da un determinato punto di vista Il Clan è un horror, rappresentando la deriva di una famiglia ben peggiore di quella, tanto per fare un esempio cinefilo inerente al genere, composta da reietti protagonista di Non aprire quella porta (1974) di Tobe Hooper: un altro decennio, un altro luogo ma molte affinità intrinseche. Lì l’appagamento di esigenze primarie, ne Il Clan desiderio inconsulto di scalare posizioni sociali ad ogni costo, con il denaro a fungere da medium obbligato. Del resto i Puccio nel film appaiono proprio come sineddoche esemplare di una nazione, ora come allora in perenne affanno economico – i notiziari radiotelevisivi non fanno altro, nel corso del film, che rimarcare quasi ossessivamente tale situazione nel paese – forzata ad inseguire con qualsiasi mezzo un benessere che saprà rivelarsi inevitabilmente effimero e deleterio.
Ben meritato allora il Leone d’Oro alla regia conseguito dal film alla Mostra del Cinema di Venezia edizione 2015: Il Clan è una lezione morale senza compromessi su un passato che lascia visibili scorie nel presente, raccontando di dittature nazionali e famigliari, nonché del modo in cui esse esercitino la loro venefica influenza, a mo’ di inarrestabile epidemia, su un corpus sociale che non possedeva, ieri come oggi, in alcun modo gli anticorpi per difendersi e reagire. Una storia che potrebbe appartenere, anche se magari in termini non così estremi, anche a qualche altro paese di nostra conoscenza. Forse il problema principale sarebbe trovare un regista capace di metterla in scena, con il distacco ed il talento di un Pablo Trapero. Sarebbe già, quantomeno, la prima tappa di un possibile risveglio dal sonno eterno della nostra moralità…

Daniele De Angelis

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