Il trionfo delle Arti
Un allegro signore sulla settantina. Una troupe cinematografica che sembra quasi faticare a stargli dietro. L’affascinante e misteriosa città di Torino. E poi idee, idee e ancora idee. Partecipare alla lavorazione di un film di Jean Rouch doveva essere davvero – a detta di chi ha avuto modo di farlo – un’esperienza che cambia il modo di intendere l’atto del fare cinema, così come la percezione del cinema stesso. Tra i fortunati che hanno potuto vivere un’avventura del genere, ci sono i cineasti Alberto Chiantaretto, Marco Di Castri e Daniele Pianciola, i quali, tra il 1984 ed il 1986, hanno collaborato con il grande cineasta francese alla realizzazione del film Enigma. Sulla lavorazione di tale film vi sono più di venti ore di girato. A partire da questi materiali, ha preso vita l’appassionante documentario L’Enigma di Jean Rouch a Torino – Cronaca di un film raté, realizzato dagli stessi Marco Di Castri e Daniele Pianciola insieme a Paolo Favaro e presentato alla 74° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Venezia Classici Documentari.
Maestro del cinema d’Oltralpe, stimato documentarista, modello per i cineasti della Nouvelle Vague e, in particolare, per Jean-Luc Godard, verso la metà degli anni Ottanta Jean Rouch decise di allontanarsi temporaneamente dall’Africa – dove aveva già girato un gran numero di documentari – per girare un film che avesse come protagonista la città di Torino. Un film “demente e dionisiaco”, a detta dello stesso Rouch. Al suo fianco, tre giovani aspiranti registi, oltre ad una nutrita squadra di collaboratori. Ed ecco iniziare un’avventura singolare e bizzarra, dove la grammatica cinematografica veniva riscritta ogni giorno, senza avere paura di osare, e dove, finalmente, tutte le arti sembravano entrare in contatto tra loro per poi trovare una nuova, fluida armonia.
Particolarmente d’effetto, dunque, i momenti in cui vediamo il maestro Jean Rouch diventare un tutt’uno con la macchina da presa, prenderla in mano, danzare quasi con essa, sperimentare nuovi movimenti. Così come ci sentiamo parte del gruppo nel momento in cui lo vediamo scherzare con il resto della troupe nei momenti di pausa.
Di Castri, Favaro e Pianciola, dal canto loro, fatta eccezione per qualche breve frammento di intervista qua e là e per una voce fuori campo che non vuol togliere spazio alle immagini, hanno deciso di sfruttare al massimo il gran numero di filmati di repertorio arrivati fino ad oggi, rispettosi e riverenti nei confronti del loro maestro, oltre che perdutamente innamorati del suo modo di fare cinema.
Non molto ci viene detto della carriera di Rouch al di fuori del periodo di lavorazione del film, così come, in chiusura, non viene fatta menzione alcuna circa gli anni successivi ad Enigma o la morte stessa del regista: ciò che davvero conta è vivere il set, vivere il cinema di Rouch allo stato puro. È anche per questo che l’ultima immagine di lui che qui ci viene mostrata risale, appunto, alla fine della lavorazione, quando si poteva finalmente tirare un sospiro di sollievo.
Soluzione più che appropriata, dunque, quella adottata dai tre documentaristi, i quali, al di là delle loro notevoli capacità, preferiscono fare qui quasi un passo indietro, ad omaggiare e, in qualche modo, ringraziare, colui che è stato maestro non solo per loro, ma per intere generazioni di cineasti. Per questo un documentario come L’Enigma di Jean Rouch a Torino è un lavoro prezioso da vedere e custodire dentro di sé a lungo. Un vero e proprio gioiellino all’interno di un contesto ricco e variegato come quello della Mostra del Cinema di Venezia.
Marina Pavido