Home Speciali Retrospettive Le intermittenze del cuore

Le intermittenze del cuore

146
0
VOTO: 8.5

La memoria involontaria del cinema

La recente scomparsa dell’attempato Fabio Carpi, pressoché ignorata dai media nazionali, ci ha invece colpito come il silenzioso addio di un amico fin troppo discreto, pudico, di sicuro inadatto alla volgarità dei tempi correnti e alla distratta, distorta cinefilia che vi si rispecchia. Abbiamo pertanto deciso che CineClandestino dovesse in qualche modo ricordarlo. E un po’ “proustianamente” (per non allontanarci più di tanto dai temi del film) abbiamo ripescato dall’archivio di una rivista che ha cessato di esistere diversi anni fa (ovvero lo spazio critico dell’associazione CinemAvvenire) questa recensione dell’ultimo lavoro cinematografico di Fabio Carpi, Le intermittenze del cuore, pubblicata da Stefano Coccia il 24 giugno 2004. Nello stesso periodo, quindi, in cui questo bel lungometraggio girato l’anno prima beneficiava di una seppur piccola distribuzione in sala.

Fabio Carpi, memoria involontaria del cinema

O anche:

Le analogie tra Mandrake e Proust

O anche:

Le macchie scure sono supposti mari

Nel parlare a ruota libera del cinema di Carpi non vorremmo esser costretti a scegliere tra un titolo e un altro, così come non vorremmo dover scegliere tra un ricordo e un altro, o tra una sensazione e un’altra, o tra un’impressione di inadeguatezza e un senso di profonda ammirazione che quasi allo stesso modo un film come Le intermittenze del cuore riesce a trasmettere. Meglio sarebbe abbandonarsi al flusso delle reminiscenze, delle intuizioni, delle parabole esistenziali incomplete, delle rivelazioni improvvise e struggenti…

Ma un punto di partenza deve pur esser scelto, e allora vada per il poetico, astronomico: le macchie scure sono supposti mari.

Carpi e la luna, la luna e Venezia.

La luna è quella di un ricordo giovanile del protagonista Saul Mortara, sbarcato in laguna assieme al proprio precettore per un viaggio d’istruzione, più o meno alla fine del ventennio fascista, quando essere ebrei significava l’esclusione da tutte le scuole del Regno.
È una luna vista attraverso il telescopio concesso per poche lire ai turisti da un vecchio con la barba bianca (Aldo Lado, fermo all’ancora nella Venezia del suo Chi l’ha vista morire?), che con aria trasognata e voce suadente cita Ungaretti, coniando poi egli stesso definizioni dei corpi celesti vagamente liriche: le macchie scure sono supposti mari… seguirà mai Saul Mortara il consiglio del giovane precettore suo amico, speranzoso di vederlo scrivere un giorno i versi successivi di quello straLUNAto discorso, che ai loro occhi è già poesia?
Può essere questa una valida premessa per entrare di soppiatto, con rispettoso silenzio, nella galleria dei rimpianti e delle occasioni perse, tra esperienze vissute ed esperienze fuggite.

La parentesi veneziana, più volte rievocata in flashback, si manifesta come potenziale epicentro di un film, Le intermittenze del cuore, fatalmente ripiegato sulle traiettorie non lineari di una memoria sollecitata dal riaffiorare di suoni, voci, volti e gesti familiari, creduti persi o mai intimamente compresi, ma destinati a tornare in superficie nei momenti più inaspettati.

Così Venezia, come antologia di immagini che verranno prima o poi recuperate.

Così il volto di Agostini, precettore dai modi cortesi e discreti di cui Saul apprende proprio durante quel viaggio le preferenze omosessuali, senza scandalo, ma con un fondo di malcelata apprensione che non confesserà mai né all’amico né a se stesso.

Così il bel volto, visto in un quadro, della cortigiana dai capelli rossi, ideale femminile che il giovane si troverà poi spesso ad inseguire, collezionando amori ancillari con esiti più o meno felici.

Nel fitto sottobosco di citazioni colte di derivazione letteraria (soprattutto), cinematografica (poco), musicale, pittorica, persino fumettistica (Mandrake), si fa strada un’inclinazione sentimentale subordinata al senso del tempo che passa, e non immune da un gusto del romanzesco deliziosamente rétro.
Questo è il leitmotiv non soltanto del breve segmento da noi isolato quale indizio di una poetica, ma dell’intera struttura di un’opera nata non a caso sotto il segno di Proust.
Certi dettagli che caratterizzano tanto il frammento veneziano che altre esperienze giovanili maturate da Saul prima, durante e dopo la guerra, si qualificano come “intermittenze del cuore”, reperti di un passato talvolta doloroso che piccoli eventi localizzati nel presente del protagonista riportano di continuo alla luce, secondo i principi di quella che Marcel Proust definiva “memoria involontaria”.
Ed è proprio l’idea di un film su Proust quella che un eccentrico produttore francese propone a Saul Mortara, anziano regista il cui amore per la letteratura non gli impedirà certo di venire assalito dall’angoscia in più circostanze; ma una tale predisposizione ai tormenti dell’umor nero, in fin dei conti, ci è già rivelata da quell’incipit di remota ascendenza bergmaniana costituito dal sogno in cui Saul, preda dello sconcerto, assiste dal relitto di una nave all’apparire del suo doppio su un molo, in una splendida sequenza di cui è parte integrante la panoramica iniziale tesa ad esplorare gli spazi aperti e desolati intorno alla nave.
Poi il risveglio in una camera d’albergo, e quello sguardo proiettato sinistramente sulla finestra che dà su un vecchio cimitero, a Montmartre.

Senilità.

Molte altre scene del film ci riportano a quella dimensione macabra cui Fabio Carpi, classe 1925, ci ha abituato in opere di straordinaria intensità quali sono Nel profondo paese straniero e Nobel; è il richiamo erotico esercitato da giovani presenze femminili, inseguite nel presente come nel ricordo, ad arginare talvolta il proliferare di immagini che ossessivamente alludono ad invecchiamento, malattia, morte.
Certi procedimenti stilistici si ripetono poi da un film a un altro come una grammatica semplice e di indubbia pregnanza: la macchina da presa che da un campo medio si avvicina al volto del protagonista, lo sguardo che si pietrifica e si assenta, l’irrompere in scena del passato.
L’abuso di simili codici espressivi rischia di produrre, a volte, una meccanicità prossima al ridicolo, quasi fosse applicazione esemplare di quell’interruzione del flusso vitale di bergsoniana memoria.
Sono piccole ingenuità (amenità?), presenti anche in certe interpretazioni, nel doppiaggio di attori stranieri, o nelle forzature ravvisabili in alcune scene, senza le quali il cinema di Carpi perderebbe però a nostro avviso parte di quella anomalia costituzionale che lo fa essere così prezioso nel panorama italiano e europeo.
Il viaggio, un’altra costante nella filmografia di Carpi, è del resto un viaggiare che segue le coordinate di Mann, di Proust, di Hoffmann, e di molti altri pilastri di un’Europa tangibile nella fisicità dei suoi scenari, ma quasi irreale nella sua vocazione ad essere creazione letteraria, fittizia identità culturale costruita su fasti scomparsi.

Con il suo charme, con il suo portamento d’altri tempi, con il suo sguardo di volta in volta ironico, distratto, commosso, lo straordinario attore argentino Héctor Alterio è ancora una volta alter ego di Carpi sullo schermo, così come lo ricordavamo nel più datato Quartetto Basileus e ancor di più nel recentissimo Nobel, con il quale Le intermittenze del cuore condivide numerose analogie, a partire dal tono con cui è descritto il difficile dialogo tra differenti generazioni.
Ad Héctor Alterio/Saul Mortara, nella scena in cui questi risponde in un programma televisivo alle domande del critico Callisto Cosulich, sono affidate parole che rivendicano orgogliosamente il proprio amore per il meticciato del cinema con le altre arti, per un cinema colto di ispirazione letteraria, per l’idea stessa del film come libro le cui pagine si aprono sullo schermo.
Carpi, contestando il primato dell’immagine, sembra sfidare contemporaneamente sia la pornografica banalità televisiva, sia gli stereotipi radical chic che riducono la produzione filmica ad un banco di prova per cialtroneschi teoremi sullo “specifico cinematografico”.
Complimenti, allora, alla spregiudicatezza di questo autore da sempre appartato, che alla correttezza del montaggio e alla credibilità della messinscena sa anteporre all’occorrenza un cinema legato al valore della parola e della sensazione, da cui ci deriva il coraggio per un ultimo titolo ancor più estremista da aggiungere alla collezione: Carpi diem!

Stefano Coccia

Articolo precedenteAttenti al gorilla
Articolo successivoNobel

Lascia un commento

Please enter your comment!
Please enter your name here

4 + sette =