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La vita straordinaria di David Copperfield

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VOTO: 7.5

 Il viaggio tragicomico nell’universo di Dickens  

Tutto ha inizio col dolore e si evolve in commedia. Persino i personaggi più terribili e mostruosi diventano maschere grottesche, quasi caricaturali, nell’universo di David Copperfield. Sono numerose le versioni per il grande schermo del più famoso romanzo di Dickens (quando Cukor ci mostrava la sua, nel 1935, se ne contavano già tre). Tra tutte, quella di Armando Iannucci riprende il marchio inconfondibile del regista, che proprio qualche anno prima, in Morto Stalin se ne fa un altro, ci mostrava il temibile dittatore sovietico morire immerso nelle sue stesse feci. 

La vita straordinaria di David Copperfield, dal 16 ottobre disponibile nelle sale italiane e presentato per la prima volta al Toronto International Film Festival, caratterizza nuovamente lo humor del regista scozzese. Deciso stavolta a calarsi nel grigiore di un’Inghilterra vittoriana, Iannucci da vita all’universo di Copperfield in modo insolito, oscillando costantemente tra il sentimento di disperazione e quello di vitale commedia. Questa opposizione viene esplicitata a partire dall’immagine, dove la collaborazione del direttore della fotografia Zac Nicholson (noto per Les Miserables e Il discorso del re) è determinante e dove i colori, proprio come le atmosfere del film, risultano estremamente polarizzati. Così, insieme al protagonista, ci ritroviamo a viaggiare tra le tinte nere della città industriale, di una Londra “affaccendata e sporca”, e quelle verdi e blu di Dover, dove il piccolo David e l’amica Emily si rincorrono in un’enorme distesa di verde, come due piccole macchie in un quadro di Monet.
La scelta di Iannucci è infatti quella di trasportare costantemente lo spettatore tra lo straziante destino del povero e il luminoso orizzonte del ricco: mentre nel primo abitano coloro che sono stati dimenticati, il secondo è popolato da chi dimentica. David, ossessionato dal ricordo, non appartiene a nessuno di questi universi, ma vi transita in cerca della propria identità. Egli è per il patrigno “il bambino che morde”, per la zia è Trotwood, per l’amico Streetforth è Deasy, per la donna amata Doady. Questa lotta costante alla ricerca di sé ha inizio proprio dalla sofferenza, attraversa la commedia, e si risolve in uno dei capitoli finali del film. “I am David Copperfield.”
Il rapporto tra il cinema e la letteratura è complesso, il più delle volte ostile: il cinema guarda la letteratura come un padre da emulare, da temere, spesso da imitare, ma sicuramente da trattare con grande riverenza e rispetto. Uno dei meriti di Iannucci sta proprio nella dissacrazione di questa riverenza. Ciò risulta evidente non tanto dalla sceneggiatura, che rispetto al romanzo si presenta piuttosto invariata (il film segue infatti la suddivisione in capitoli del racconto, cercando di trovare una struttura omogenea all’infinito materiale narrativo a disposizione), quanto dai numerosissimi volti che prendono forma all’interno del film. Sono quello di Mr Wickfield, il simpatico padre alcolista, quello dell’amata Dora, simile al barboncino che porta costantemente in braccio, quello di Mr Dick, fragile come la testa di Carlo I da cui è tormentato. Volti belli, brutti, smunti, stravaganti, che popolano il mondo di David come un’enorme circo, in situazioni estremamente teatrali e spesso paradossali. Di tutti questi volti David porta con sé il ricordo: ogni loro frase si ripete in maniera ossessiva dentro i suoi pensieri.
Con un cast corale d’eccezione (oltre a Dev Patel nel ruolo di protagonista figurano i nomi di Tilda Swinton e Hugh Laurie) l’indagine finale del film si conclude negli unici due esiti possibili al dolore. Mentre l’amico Streetforth sceglie il nulla attraverso il suicidio, David inizia finalmente a scrivere il suo racconto.  

Silvia Campisano

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