Da Roma a Torino, con un passo incerto
C’è un merito che sarebbe impossibile non ascrivere al cinema di Ivano De Matteo: saper leggere i tempi per nulla facili in cui viviamo, mantenendo al contempo una genuina tensione etica che pone la sua scrittura filmica sempre dalla parte dei più deboli, dei caratteri fragili, di quelle persone che una società cinica e priva di equilibrio come la nostra tende fatalmente a isolare, a far sentire inutili e marginali. Stando a opere come Gli equilibristi (2012) o ancor di più come La bella gente, lungometraggio realizzato in precedenza (2008), ma solo di recente distribuito in sala, maggiore era stato il nostro apprezzamento per questa sana predisposizione. In La vita possibile, invece, l’impressione è che alla bontà delle intenzioni non abbia corrisposto una resa filmica in tutto e per tutto adeguata. Vediamo pure perché.
In fuga da Roma, con Torino quale provvisoria destinazione. Così ci viene presentato il piccolo nucleo famigliare composto da Anna (un’ottima Margherita Buy) e da suo figlio Valerio (sorprendentemente a suo agio il giovanissimo Andrea Pittorino). Ad accogliere entrambi in una Torino meno fredda e distante di quanto ci si potrebbe aspettare c’è un’amica della mamma, Carla (positiva anche la prova di Valeria Golino), autentico peperino dal carattere stravagante, la cui vera passione è il teatro. Motivo della fuga: un marito violento, fuori controllo, che la povera Anna a Roma non riusciva più ad arginare, nonostante quelle restrizioni giudiziarie applicate però in forma troppo tenue e di dubbia efficacia. Come troppo spesso tende a verificarsi in Italia. E altrettanto spesso casi del genere paiono destinati a finire in cronaca nera, purtroppo…
Il film di Ivano De Matteo è quindi, in sostanza, la storia di due spaesamenti. Quello di una donna molto provata che deve ricostruirsi una vita, anche lavorativamente, in una nuova città. E quello del piccolo Valerio. Non sarà facile neanche per lui ambientarsi a Torino, rinunciando all’improvviso alla vita e alle amicizie che aveva nella capitale. Ma diverse altre storie sono destinate a intrecciarsi con il loro forzato esilio in Piemonte, da quella di una giovane prostituta, a quella di un ex calciatore francese, poi proprietario di un bar, sul cui passato gravano ugualmente ombre pesanti. E alcune di queste presenze lasceranno un segno importante, nella progressiva rinascita di Anna e del suo bambino.
Attori in vena. Uno sguardo sulla città capace di catturare con sufficiente spigliatezza alcuni tra gli elementi caratteristici di Torino, senza cadere necessariamente negli stereotipi. La solita sensibilità nei confronti di percorsi esistenziali sofferti.
Dov’è allora che La vita possibile ci ha lasciato perplessi? Essenzialmente in quelle smagliature del racconto e dei dialoghi, in quella eccessiva semplificazione di situazioni famigliari ed emotive complesse, che sottraggono gradualmente veridicità alla messa in scena. Nonostante ci piaccia, di fondo, l’accanirsi di De Matteo contro certi ambienti radical chic, la descrizione della troupe teatrale con cui interagisce il personaggio della Golino risulta per esempio un po’ troppo caricaturale, forzata, e per questo scontata. Altre notazioni riguardanti l’interesse del ragazzino, Valerio, per una quasi coetanea costretta a prostituirsi in strada, producono un analogo senso di scollamento dalle dinamiche generali della narrazione. E proprio in un momento cruciale di questo delicato rapporto ha fatto capolino la scelta registica che abbiamo trovato maggiormente irritante: una vera e propria “scena madre” accompagnata dalla musica di Jovanotti. Ecco, un regista solitamente sincero come Ivano De Matteo dovrà appuntarsi proprio questo, a nostro avviso, in prossimità del suo successivo lavoro: evitare in qualsiasi modo canzoni di Jovanotti a coronamento delle scene più intense, se tali scene le si vuole proporre, poi, senza incappare nel rischio di una retorica posticcia.
Stefano Coccia