Sacro e profano
Grandi emozioni la sera del 20 aprile al Cinema Farnese di Roma, dove si è svolta un’anteprima per pubblico e giornalisti, che ha riscosso in sala non poco entusiasmo. Del resto dopo la seminale tappa veneziana (e giova qui ricordare che il film è stato realizzato proprio con il grant di 150.000€ di Biennale College Cinema) e dopo altre soddisfazioni di natura festivaliera, tra cui il trionfo al RIFF e l’annunciata partecipazione a una kermesse prestigiosa come il Tribeca, La Santa Piccola di Silvia Brunelli ha intrapreso nella capitale un percorso distributivo che, toccando diverse città, raggiungerà a fine corsa quella Napoli da cui tutto ha avuto inizio. Sì, perché in effetti è il Rione Sanità a fare da cornice a un racconto cinematografico straordinariamente intenso, in cui gli umori della città pervadono le relazioni tra i personaggi facendole pulsare di vita, in una dimensione tanto realistica quanto paradigmatica, trasfigurata, simbolica.
Il sacro e il profano. La Napoli sofferente e quella irradiata di un irriducibile vitalismo. Da queste apparentemente semplici antinomie la regista Silvia Brunelli e la co-sceneggiatrice Francesca Scanu hanno tratto un’opera cinematografica dalla tessitura finissima, laddove anche il suono (stra-consigliata la visione in sala, pure per l’impatto di una colonna sonora le cui pulsazioni rendono ancora più tangibile lo stato d’animo dei protagonisti) sembra amplificare l’affannoso scivolare dei corpi in una condizione che vede sfidarsi tra loro, non senza ironia, gli impulsi materiali e il sostrato più misticheggiante della cultura partenopea.
Tra scaramanzia e devozione, tra ricerca della trasgressione e aspirazione al sacro. Tutto ciò è evidente sin dalla primissima sequenza, quella del “miracolo” durante la processione, attraverso il quale si manifesta per la prima volta lo speciale talento della bimba che un sentimento popolare diffuso vorrebbe far subito santa. Da lì si procede ad esplorare il nucleo famigliare della piccola Annaluce (una straordinaria Sophia Guastaferro), coacervo di nodi irrisolti e tensioni sotterranee, che la sensibilità registica di Silvia Brunelli riesce a trasfigurare senza essere reticente e al contempo senza risultare caricaturale, pacchiana. Sono semmai le prossemiche tra i protagonisti, in primis Lino (Francesco Pellegrino) e Mario (Vincenzo Antonucci), a introdurre lo spettatore alla fatica di mettere a nudo i sentimenti o di interagire con un tessuto urbano indubbiamente difficile, che sembra frustrare continuamente le legittime aspirazioni di chi auspica per sé e per i propri cari un futuro diverso. Attrazioni inconfessabili (ma poi confessate), disagio famigliare, ricerca costante di prospettive ultraterrene creano quindi i presupposti di un “realismo magico” in chiave partenopea, che non cede però mai agli stereotipi di un certo filone cinematografico e letterario, regalando al contrario “epifanie” che una macchina da presa curiosa e mai invadente cattura con leggiadra empatia. Avvalendosi, in questo, anche dello straordinario calore umano emanato da un cast perlopiù giovane, ben assemblato grazie anche alla contigua presenza del Nuovo Teatro Sanità e dei suoi spigliatissimi interpreti.
Stefano Coccia