Fermi, non per scelta, in un’Italia alla deriva
L’antica, nobile arte dei circensi. Abituati per via del loro mestiere a essere nomadi. Ossia a girovagare di città in città, alla ricerca di pubblici sempre nuovi, ai quali proporre i loro spettacoli. Tutto ciò si è tramandato fino alla contemporaneità. Trovando infine in quell’Italia paralizzata nel 2020 dalla pandemia, dai draconiani editti di Conte, dal “lockdown” prolungato all’inverosimile e dalle troppo scarse misure di sostegno per chi era impossibilitato a lavorare e portare a casa il salario, una seria minaccia alla propria sopravvivenza economica e identitaria…
Ebbene sì, tra coloro che hanno sofferto di più della sciagurata gestione della pandemia ci sono anche queste categorie: giostrai, ambulanti, circensi. Prima bloccati in un disperato “fermo immagine” e poi privati dallo Stato di interventi finanziari realmente efficaci. Tant’è che molti di loro, stando a inchieste affidabili e a rilievi statistici, sono scivolati sotto la soglia di povertà o hanno dovuto comunque abbandonare la professione.
A restituire un po’ di dignità al circo e ai suoi artisti ci ha pensato ancora una volta il cinema. In concorso all’ottava edizione dell’On the Road Film Festival vi era anche La carovana bianca di Artemide Alfieri e Angelo Cretella: documentario prezioso, incentrato sulle vicissitudini cui sono andate incontro recentemente quattro famiglie di circensi, bloccate col carrozzone di rito e gli animali (mantenuti con grande cura, contrariamente a ciò che si potrebbe essere portati a pensare) in una delle tante periferie della penisola, nella struggente attesa che il mondo si rimetta in movimento o che almeno il governo italiano si ricordi di loro. Memorie di un nomadismo felice e in controcampo un presente fatto di stasi forzata. Lavori portati avanti per passione e altri cercati con alterne fortune, per ricostruire una seppur misera economia di sussistenza, arrendendosi di fatto a modelli di vita in precedenza rifiutati. Un altro vibrante episodio della sempiterna lotta tra conformismo e omologazione, a conti fatti.
Da tali dicotomie Artemide Alfieri e Angelo Cretella hanno tratto un lavoro cinematografico tanto sincero, ricolmo di passione autentica, quanto equilibrato e armonico sul piano formale. La carovana bianca ondeggia, nella sua stasi solo apparente, tra l’innaturale, forzosa immobilità della situazione e certi residuali slanci vitalistici. Laddove pure la nascita di un piccolo cammello assume il rilievo di un’epifania rinfrancante e miracolosa. Il montaggio stesso, curato anch’esso da Artemide Alfieri, pare protendersi in tale direzione, mettendo a fuoco determinati legami tra presente e passato: ne è valido esempio l’elegante raccordo tra il movimento rotatorio di un’impastatrice, nel luogo dove una delle protagoniste è costretta temporaneamente a lavorare, e quei movimenti circolari compiuti un tempo – e con ben altro spirito – sotto il tendone. Documentario di osservazione strutturato poi in modo decisamente arioso, il film vive anche di questo: l’alternarsi di rallentamenti improvvisi della narrazione dovuti a momenti dal valore puramente riflessivo, contemplativo, e di scene montate con un taglio più frenetico, gioioso, atto quindi a rappresentare altri stati d’animo. Ed è in questo caso l’intenso commento musicale dell’Orchestra Elettroacustica Officina Arti Soniche – OEOAS ad assicurare omogeneità e pathos a un assai articolato percorso visivo, del tutto coerente con il tenore delle storie narrate.
Stefano Coccia