Miracolo in montagna
Siamo d’accordo: un contesto tanto affascinante quanto potenzialmente misterioso come quello montano riesce facilmente a far breccia nel cuore di autori e cineasti di tutto il mondo. Tale location può dar adito a storie di qualsiasi genere. L’importante è saperla sfruttare come si deve. Ed è proprio questo ciò che ha tentato di fare il regista ed attore francese Cédric Kahn, il quale – con il suo La prière, presentato in Concorso alla 68° edizione del Festival di Berlino – ha dato vita ad una storia di turbamenti adolescenziali, in cui sia l’ambientazione che la religione giocano un ruolo fondamentale. Le premesse per un lavoro di tutto rispetto, dunque, ci sono tutte.
Thomas ha 22 anni e deve iniziare un percorso di disintossicazione dall’eroina. Al fine di ricominciare una nuova vita, il giovane entra a far parte di una comunità di ragazzi con un difficile passato alle spalle, diretta da un giovane prete ed ubicata sulle pendici delle Alpi francesi. Questa sua nuova vita, però, non sarà affatto facile e Thomas ben presto tenterà di fuggire. A fargli cambiare idea sarà la giovane Sybille, figlia di una coppia che abita vicino alla comunità e di cui il giovane si innamorerà a prima vista.
Quali sono gli elementi che fanno sì che una storia come questa messa in scena da Kahn possa funzionare? Innanzitutto, la location. Non solo l’ambiente claustrofobico, ma anche la sua particolare ubicazione – lontano da ogni qualsivoglia centro urbano – fanno della suddetta comunità lo sfondo ideale per sviluppare una vicenda come quella del giovane Thomas. La religione, dal canto suo, è altresì un punto di forza all’interno dello script, in grado di apportare la giusta dose di tensione – a causa delle sue regole ferree – e di mistero all’intero lungometraggio. La stessa figura del protagonista, tra l’altro, con tutta l’incertezza e la fragilità tipiche di un adolescente che ancora non ha trovato il proprio posto nel mondo, rappresenta l’eroe ideale per una storia come questa qui messa in scena.
Con tali premesse, come mai, dunque, questo lungometraggio di Kahn proprio non è riuscito a centrare il segno? Colpa, come purtroppo avviene in casi del genere, soprattutto dello script. Non pochi sono, infatti, i clichés e le forzature presenti in sceneggiatura. Al fine di raccontare per immagini le inquietudini di Thomas ed il suo senso di spaesamento all’interno della comunità, il cineasta francese ha realizzato numerose forzature e sequenze decisamente posticce che, del tutto fuori luogo, altro non fanno che far perdere di credibilità al lungometraggio intero. È il caso, questo, di momenti come la scena in cui vediamo il protagonista allontanarsi per una manciata di secondi, al fine di fare due tiri di sigaretta: il ragazzo non fa in tempo a raggiungere un capanno poco distante dall’edificio in cui alloggia, che subito l’intera comunità inizia a cercarlo concitatamente. Peccato, però, che lo stesso non accade nel momento in cui il giovane, dopo essersi perso durante un’escursione in montagna insieme ai suoi compagni, non viene cercato da nessuno di loro e, dopo aver passato la notte al gelo e con un ginocchio ferito, una volta giorno riesce a svegliarsi miracolosamente guarito e più in forma che mai, attribuendo l’accaduto alla volontà del Signore.
E poi c’è lei, la divina Hanna Schygulla. Vera e propria chicca dell’intero lungometraggio, la grandissima interprete – qui nel ruolo di una suora a dir poco sadica – risulta (come, purtroppo, le capita da diversi anni a questa parte) relegata in un ruolo che ha quasi del macchiettistico, trattata dallo stesso regista come un trofeo, una sorta di fiore all’occhiello dell’intero lavoro, più che come l’attrice di tutto rispetto che è. Neanche la sua presenza, dunque, riesce a salvare in corner un prodotto come La prière, che, purtroppo, rappresenta un vero e proprio scivolone del celebre regista francese, il quale – molto triste doverlo ammettere – tende inesorabilmente a sparire all’interno di una pregiata selezione come questa della 68° Berlinale.
Marina Pavido