Il vento e il castello (di carte)
La crisi economica come non l’avete mai vista. O meglio: come quasi tutti abbiamo preferito non vederla. In primo luogo, infatti, La grande scommessa di Adam McKay ci ricorda l’importanza del punto di vista. Esaminare qualcosa dall’esterno non può portare, per forza di cosa, ad un risultato pari a quello di un approfondito sguardo dall’interno. Ciò che però non ci si sarebbe aspettato è il paradosso di un film – intuibile sin dal titolo originale, cioè The Big Short, letteralmente il grande corto – che usa stilemi, ritmi e sovrastrutture da commedia tipicamente contemporanea per rendere edotto il suo pubblico sul più grande sfacelo economico a stelle e strisce dai tempi della Grande Depressione. Con la decisiva differenza che nel villaggio globale del ventunesimo secolo l’effetto domino è stato nefasto in ogni angolo del pianeta.
Cosa racconta, dunque, La grande scommessa? La storia di un manipolo di addetti ai lavori – ovviamente del settore finanziario – che hanno intravisto prima di tutti una falla nel sistema. Investendo i loro soldi sul fatto che essa diventasse il gigantesco buco nero che poi si è effettivamente formato e che continua tutt’oggi a manifestare i propri deleteri effetti sulla pelle di molti. Una galleria di caratteri sospesa nella più totale ambiguità di fondo: ultimi paladini di una moralità ormai perduta oppure opportunisti privi di scrupoli pronti a spartirsi le spoglie del gigante morente? Come in ogni grande film che si rispetti, esistono personaggi ricchi di sfumature. Primo a scoprire il tallone di Achille della bolla immobiliare che ha fatto da detonatore alla deflagrazione il Michael Burry efficacemente interpretato da Christian Bale, sorta di semi-autistico genio capace di smontare pezzo per pezzo un enorme giocattolo difettoso che ha visto nascere e crescere sotto i propri occhi. Poi la squadra finanziaria capitanata dal nevrotico Mark Baum (uno strepitoso Steve Carrell, sorta di epicentro “morale” del film), sapientemente imbeccata dall’insider Jared Vennett (Ryan Gosling), dipendente di banca ansioso di far svoltare la propria esistenza. Quindi il nume della finanza Ben Rickert – con il carismatico Brad Pitt che ancora una volta si ritaglia, da produttore del film, un ruolo da deus ex machina come in 12 anni schiavo – il quale aiuta due “nerd” del mondo economico a monetizzare le loro intuizioni.
Come dunque si potrà notare il grande merito del film è quello di descrivere con assoluta precisione uno scenario talmente post-apocalittico da rendere pressoché impossibile un giudizio di assolvimento o condanna nei confronti dei vari personaggi. La grande scommessa abbatte, sia fisicamente che concettualmente, la metaforica “quarta parete” rivolgendosi spesso direttamente al pubblico non come semplice captatio benevolentiae ma alla stregua di un pressante avviso ai naviganti, se non autentica chiamata in correo: in questa vicenda di speculazioni, speculazioni sulle speculazioni e sulle contro-speculazioni rappresentata al pari di un’infinita catena di scatole cinesi impazzita, nessuno può dirsi del tutto estraneo. Anche perché nel film dell’ispiratissimo regista/cosceneggiatore Adam McKay – dimostrazione che il classico film “della vita” può esistere eccome – sono presenti sequenze spiritosamente didattiche nelle quali una splendida Margot Robbie (ogni riferimento a The Wolf of Wall Street non è puramente casuale) in vasca schiumata o una Selena Gomez al tavolo del black jack spiegano ai comuni mortali determinate dinamiche speculative capaci di portare milioni a pochi e toppe sul didietro a molti. Il fulcro del film è tutto qui: possidenti del piccolo capitale attenti, perché le banche sono paragonabili a dei grandi casinò dove l’ultima mano è sempre a vantaggio del banco (e perdonate il gioco di parole), cioè dei ricchi che diventano sempre più tali sulla pelle altrui. Un po’ come sorridere assieme ad una vertiginosa opera cinematografica che ci ricorda come, a causa dell’assenza delle più elementari norme di regolamentazione in materia, circa otto milioni di soli americani hanno perso il lavoro e sei il proprio alloggio, senza contare le “vittime di guerra” tra suicidi e malattie conseguenti allo status di insicurezza permanente.
Ma La grande scommessa non era (è) una riuscitissima commedia su fatti realmente accaduti ad inizio millennio?
Daniele De Angelis