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La bocca dell’anima

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VOTO: 7

Liberaci da tutti i mali

Nella mission del Sottodiciotto Film Festival & Campus c’è anche quella di dare opportunità di visibilità agli esordi italiani, ospitando all’interno della sua 25esima edizione il quarto atto del Premio “Gianni Volpi”, riconoscimento destinato alla migliore opera prima prodotta nel corso dell’anno. Tra i cinque film in gara ha trovato spazio La bocca dell’anima di Giuseppe Carleo, presentato nella giornata inaugurale della kermesse torinese dopo l’uscita nelle sale avvenuta lo scorso settembre, preceduta dalla première mondiale al 70° Taormina Film Fest.
Per il suo battesimo nel lungometraggio di finzione, il regista palermitano ha tratto ispirazione dal linguaggio della magia popolare, con cui ha vissuto una comunione profonda sin da piccolo e del quale, al sud in particolare, la cultura e l’identità sono impregnate sin dalla notte dei tempi, ma anche da una storia realmente accaduta nella Sicilia rurale del secondo dopoguerra, quella di Giovanni Velasques, reduce segnato da un trauma misterioso che torna suo paese natale, un piccolo villaggio arroccato fra le aspre montagne della Sicilia. A liberarlo da questa sofferenza è una vecchia maara che lo inizia all’arte della magia, rivelandogli di possedere il dono, lo spirito di un uomo morto con il quale potrà aiutare gli altri. Ben presto l’autorevolezza conquistata dal nuovo mago lo porta a scontrarsi con le altre facce del potere, la chiesa e la mafia. Giovanni ripiomba in una solitudine che lo incattivisce, finché il grido di dolore della sua famiglia lo richiama al ruolo di padre e lo intima a rinnegare quello spirito “diabolico” che alberga nel suo corpo. Ma quest’anima sacra, venerata come una divinità, potrà davvero perdersi nell’oblio?
Lasciamo però alla visione tutte le risposte in merito al destino del protagonista, ma quello alla quale andrà incontro lo spettatore di turno nel corso della fruizione è un film sul quale porre la giusta attenzione per tutta una serie di elementi che vanno a comporre e alimentare il suo DNA narrativo, drammaturgico ed estetico-formale. Merito di una sceneggiatura, scritta a quattro mani con Carlo Cannella, che ha eretto le proprie basi su una ricerca che, da un lato, ha tenuto conto di testi fondamentali come “La magia in Sicilia” e “Il corpo è fatto di sillabe” di Elsa Guggino e, dall’altro, di un’indagine diretta con gli ultimi operatori magici tradizionali ancora attivi nell’isola. Questo ha permesso a La bocca dell’anima di stratificarsi e unire fascino per il mistero, sguardo antropologico, indagine sociologica e al suo autore di dare forma e sostanza ad una storia al contempo intima e collettiva. Il punto di partenza è quello classico del ritorno di un “eroe” in una terra natia che per diversi motivi non può e non riesce più a sentire sua alla pari di uno straniero, ma nell’economia generale ciò rappresenta solamente l’innesco drammaturgico al quale la scrittura e la messa in quadro hanno preso spunto per portare sullo schermo un approccio alla materia diverso e più complesso.
Iniziamo con il sottolineare che La bocca dell’anima si distingue per la sua concezione cinematografica lontana dall’immaginario di una rappresentazione stereotipata della Sicilia, portando lo spettatore in ambientazioni e location per nulla cartolinesche e idilliache. Ecco allora emergere prepotente una visione altra e altrettanto veritiera dell’isola, restituita anche grazie alla potenza impattante delle immagini e della fotografia di Leone Orfeo all’insegna di un materico realismo. C’è poi da sottolineare il modo in cui la pellicola si va a inserire nel contesto di una cultura subalterna, in cui il linguaggio magico costituisce un sistema di comunicazione quotidiano alla pari del dialetto stretto utilizzato nei dialoghi. Nella storia della Settima Arte siamo infatti abituati a vedere la magia trattata quasi sempre in chiave fantasy, horror o documentaristica (pensiamo alle preziose quanto affascinanti produzioni del cinema documentario italiano sul tema realizzate da Vittorio de Seta, Gianfranco Mingozzi, Cecilia Mangini e Luigi Di Gianni, sull’onda degli studi portati avanti di alcuni dei protagonisti di questi campi, uno su tutti Ernesto De Martino). Qui, rispetto alle produzioni di fiction che hanno trattato o sfiorato l’argomento, ci si muove invece su altre traiettorie, proponendo per la prima volta il percorso attraverso cui un uomo diventa mago in una cultura rurale. Siamo quindi distanti da forme di magia quali lo spiritismo, l’esoterismo, il satanismo, le scienze occulte, che si muovono all’interno di un milieu borghese e aristocratico, dove anche il rapporto con il regno dei morti è differente.
Ed è questo, insieme a quelli sopra elencati, il perno del baricentro su e intorno al quale l’operazione, l’approccio e il modus operandi di Carleo ruota e si sviluppa per dare forma e sostanza al film, alla vicenda narrata e ai personaggi che la animano, in primis quel Giovanni che oltre a fare i conti con il “dono” e le sue conseguenze è chiamato a lottare con un fervido desiderio di libertà, entrerà in conflitto con la comunità e con le altre facce del potere. Efficacissimi in tal senso Maziar Firouzi nei panni del protagonista a impersonificare questa duplice conflittualità interna ed esterna e il regista nel comunicarla visivamente attraverso le immagini in cui la luce si scontra inseguendo bagliori con il buio.

Francesco Del Grosso

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