Corriere universale
Una delle principali stimmate distintive per un autore è quella di saper modellare uno specifico genere alla propria poetica. Se ancora ci fosse quindi bisogno di un’ulteriore dimostrazione di grandezza per il cineasta giapponese Sion Sono, ecco servito sul classico piatto d’argento il fantascientifico The Whispering Star, presentato nella Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma edizione 2015.
Fantascienza, allora. Ma ovviamente secondo il particolarissimo tocco di Sono. In un futuro indefinito una donna androide dalle sembianze molto umane consegna pacchi attraversando vari punti dell’universo, a bordo di una navicella spaziale molto simile ad un prefabbricato dei nostri tempi, provvisto di angolo cottura, magazzino ed un computer di bordo addirittura più riflessivo del personaggio principale, cioè il corriere denominato Yoko Suzuki. In un bianco e nero ricco di infinite suggestioni come le intere galassie da percorrere – ma c’è spazio per una folgorante sequenza a colori, su un pianeta che riaccende memorie ataviche – Sono ci conduce subito alla misurazione infinita del tempo nel viaggio interstellare. E non lo fa mediante lunghe, estenuanti riprese fisse, bensì attraverso la contemplazione degli oggetti di bordo, serratamente intervallati da didascalie che avvisano dello scorrere inevitabile dei giorni. Il rubinetto che perde, le falene prigioniere della plafoniera che illumina l’ambiente. Tutti segnali di un qualcosa che va irreversibilmente degradando e che troverà conferma nelle varie fermate di Suzuki per consegnare quelle scatole che contengono (il corriere le apre durante il viaggio prima della consegna, dato che non sono sigillate) oggetti-ricordo di un passato ormai estinto, evidentemente tesi a rivitalizzare pulsioni esistenziali ormai sopite.
La fantascienza premonitrice di Sion Sono altro non è che una rappresentazione della solitudine come anticamera della fine definitiva. Le ombre simboliche del disastro nucleare di Fukushima tornano a manifestarsi sotto altra forma, nel cinema di Sono. La razza umana è sull’orlo dell’estinzione, gli androidi si sono mescolati ad essa generando un irrisolvibile enigma non solo fisico ma soprattutto morale. Poiché le caratteristiche cosiddette umane ormai appartengono sia all’una che all’altra “categoria”. Tranne che nell’ultimo pianeta visitato per la consegna, che il computer di bordo avvisa essere popolato interamente di umani a rischio danneggiamento acustico e che infatti altro non sono che ombre in movimento dietro pareti luminose. Un sottile “gioco” meta-cinematografico che ci riporta al punto di partenza, a quel discorso sul potere affabulatorio della Settima Arte che ha sempre costituito un elemento densamente speculativo nell’intera filmografia di Sono. In The Whispering Star, opera solo in apparenza anomala e controcorrente rispetto alla sua poetica più conosciuta a livello internazionale, non si viene turbati da una violenza sopra le righe e del tutto fuori controllo; non ci si diverte con quel gusto per il parossismo romantico tipico dell’autore dello straordinario, fluviale – tanto per citare un titolo – Love Exposure (2008). In The Whispering Star si resta semplicemente ammirati nella contemplazione, amara ma sempre solidale e partecipe, di ciò che diventeremo allorquando perderemo, senza possibilità alcuna di ritorno indietro, la capacità di emozionarci, di stimolare la nostra disposizione alla conoscenza, dell’altro e dell’altrove. Solamente in quel momento saremo davvero soli, al pari delle simboliche creature – umane o no? – che si aggirano lungo pianeti colonizzati senza essere mai stati realmente vissuti. Un peccato (im)mortale che prima o poi la razza umana coglierà, come sempre ha fatto nella sua storia ormai millenaria. Perdendo l’anima.
E in quel fatidico momento non ci sarà alcun film come The Whispering Star (la stella del sussurro: chi vedrà il film comprenderà appieno il motivo di tale titolo..) ad esorcizzare poeticamente qualsiasi nostra paura. E forse non ci sarà nemmeno il privilegio della paura umana. Solo un oblio privo di termine, simboleggiato dal pacco che Yoko Suzuki spedisce a se stessa nello splendido finale di un film assolutamente da non lasciar naufragare nelle secche della memoria.
Daniele De Angelis