Chi tocca Fido muore
C’è un solo modo, per i film action modello “uno contro eserciti”, di allargare la platea rispetto agli adolescenti giocatori di videogame dove impazza la violenza: buttarla sul teatrino dell’assurdo, svuotando di qualsiasi pretesa socio-politica la pellicola in questione. John Wick, oltre che il ritorno al cinema del cinquantenne Keanu Reeves, segna anche un tentativo di viaggio all’indietro nel tempo, verso quegli impagabili – cinematograficamente parlando – anni ottanta dove il cinema di genere era puro e semplice sfoggio muscolare, in omaggio all’edonismo superomista allora imperante non solo negli Stati Uniti. I tempi però sono leggermente cambiati, Ronald Reagan non solo non è più presidente ma anzi ha lasciato da tempo questa valle di lacrime; così la ciambella non è riuscita perfettamente con il buco, anche se gli sforzi da parte degli autori di ricreare quell’atmosfera caratterizzata da un sottovuoto intellettuale spinto e ironia di grana più o meno grossa sono abbastanza visibili. Tuttavia modelli di sublime idiozia conditi da una dose di violenza così massiccia da risultare debordante come Commando (1985) di Mark Lester con il numero uno del campo Arnie Schwarzenegger o persino, scendendo ulteriormente di livello, Invasion U.S.A. diretto nello stesso anno da Joseph Zito e interpretato da Chuck Norris, restano abbastanza lontani.
Del resto l’intero pedigree – vocabolo quanto mai azzeccato, visto che la molla dell’azione è rappresentata dai destini di un cane di razza – di John Wick mette subito sul chi va là. Una coppia di registi esordienti, tali Chad Stahelski e David Leitch, provenienti principalmente dal variegato mondo degli stuntmen. Un divo da tempo in odor di bollitura artistica come Keanu Reeves nei panni del protagonista del titolo. E infine una mafia russa – ormai ufficialmente, dopo The Equalizer – Il vendicatore di Antoine Fuqua, nemico designato nel cinema di genere americano, alla faccia dello zar Vladimir Putin – da operetta, composta da centinaia e centinaia di stolti individui pronti a farsi massacrare dal quasi intoccabile John Wick, capace – una volta stimato il body count del film – di ricondurre il collega Liam Neeson della saga Taken a sorta di pacifista d’ispirazione gandhiana. Peccato dunque non si sia voluto calcare la mano sulla parodia involontaria da trash in modo più esplicito, poiché le premesse narrative questo ed altro suggerivano. Il misterioso Wick, dopo la perdita dell’adorata moglie causa malattia, è inconsolabile. Fino a quando non riceve in regalo, non si sa come né in che modo, dalla defunta un cucciolo di beagle al quale si affeziona teneramente. Purtroppo il giovane e debosciato figlio di un boss della mala russa ha messo gli occhi sull’auto d’epoca di Wick e organizza un raid notturno per impossessarsene, ignorando con chi ha a che fare. Finisce malissimo, tanto da far scattare la vendetta inesorabile del protagonista. Nel mare magnum degli omicidi violenti, qualche trovata azzeccata nello script di Derek Kolstad (altro illustre sconosciuto…) ci sarebbe pure. Il ruolo eufemisticamente passivo della polizia che assiste inerte alla strage oppure l’esistenza di un’entità superiore – quasi una loggia massonica – che sorvegli e giudichi il mondo della criminalità e punisca i comportamenti sbagliati (sic!!) del proprio ambiente restano però sullo sfondo di una vicenda unicamente riconducibile al cosiddetto “revenge movie“, magari sponsorizzato dalla protezione animali. Infatti gli unici davvero soddisfatti, alla fine della visione, saranno forse gli animalisti più integralisti, appagati dal fatto che chi fa del male agli animali potrebbe fatalmente andare incontro a turpe fine.
Da parte nostra, nel tirare le somme, non escludiamo affatto che John Wick, inteso come film, possa essere considerato tra trent’anni un qualcosa che assomigli ad un oggetto di (s)culto cinematografico. Le vie del revisionismo critico e ideologico sono davvero infinite, come insegna il recente American Sniper di Clint Eastwood. Intanto però, almeno la nostra generazione, continua ad avvertire in modo lancinante la mancanza delle facezie d’azione del grande Arnold Schwarzenegger al suo meglio: al tempo si era così giovani, meravigliosamente ingenui e inconsapevoli…
Daniele De Angelis