Un modus vivendi chiamato calcio brasiliano
Sorridente, allegro, un po’ infantile. Ingenuo, dall’aspetto benevolo e anche un po’ grassoccio. In una parola: Banana.
Banana è un simpatico giovanotto di appena 14 anni che ha fatto sue, nella vita come nel gioco, le regole del calcio brasiliano: attaccare sempre, con ardore e determinazione, anche se il mondo intero ti rema contro; anche se i fatti, come un piede storto da cui deriva il buffo soprannome, non ti sono d’aiuto. Tu vai avanti senza sosta e, appena lo senti, tira il pallone per fare goal. Anche se finisce puntualmente fuori campo; anche se finisce al di là di un muretto da cui torna indietro sistematicamente squarciato da qualcuno che non apprezza.
Con questa singolare metafora si solleva il sipario sul tragicomico lungometraggio, opera prima di Andrea Jublin, che narra la storia di un ragazzino il cui obiettivo nella vita è la ricerca della felicità. Non una felicità a 360 gradi, come scrive anche nel suo tema, che scorre lungo il corso della narrazione, basta anche che sia una felicità relativa, una felicità per qualcosa. Quel qualcosa, nel caso di Banana, si chiama Gessica, sua compagna di classe, una spregiudicata teen-ager di qualche anno più grande di lui e con un’indolenza allo studio che l’ha portata alla bocciatura più di una volta. Gessica è nota della scuola per essere una ragazza dai facili costumi ed è perennemente circondata da uno stuolo di compagne che le fanno da dame di compagnia, sostenendola e proteggendola all’occorrenza, nonché tenendola perennemente lontana da personaggi che reputano “sfigati” o insignificanti. Come Banana, per l’appunto.
Ma il nostro eroe non si dà per vinto, e, esattamente come quando è in campo, continua a inseguire la propria mèta dribblando gli ostacoli che la vita gli presenta. Così decide di aiutare Gessica negli studi, onde evitare un’ennesima bocciatura di cui anche lui avrebbe pagato le conseguenze, non potendola più avere in classe con sé.
La pellicola presenta una serie di cliché triti e ritriti, dalla contrapposizione tra la positività e il cinismo, alla dicotomia mondo degli adulti/mondo dei bambini, sino ad arrivare alla consueta distinzione tra chi continua strenuamente a credere nei propri sogni e chi smette di farlo per paura di morire di fame e di freddo.
Conflitti esalatati dall’estrema caratterizzazione dei personaggi, i cui tratti distintivi vengono appositamente esasperati, in modo da donare a ognuno un’immagine che si muoverà per tutto il tempo all’interno della messinscena. Un’esasperazione, tuttavia, che poco spazio lascia alle immagini, a favore di didascalici dialoghi ed esplicativi pensieri ad alta voce, riportati talvolta sotto forma di tema o di lettera, togliendo respiro all’immaginazione, per la paura che lo spettatore non capisca.
Un pessimismo che traspare anche nella trama stessa del film: Banana è circondato da personaggi estremamente negativi che tentano continuamente di sottometterlo, e i pochi che lasciano un filo di speranza hanno avuto comunque un’esistenza infelice. La sua ricerca di felicità è estremamente autonoma; non trova nei rapporti interumani una corrispondenza che lo porta ad essere così fiducioso nella vita. Ciò lo rende, in qualche modo, un personaggio un po’ alienato rispetto al proprio contesto, e per questo piuttosto inverosimile. Il dubbio se finirà per dar ragione alla massa di cui si circonda o continuerà a tentare di mettere la palla a segno, nonostante il piede storto, permane.
Ma proprio quando sembrerà tutto finito, un pallone che tornerà indietro non più squarciato e il sorriso più grande del mondo che ne seguirà, lasceranno un filo ottimismo per il suo avvenire.
Costanza Ognibeni