Il primo padre
Chi dando seguito alle voci di corridoio giunte dal 77° Festival di Cannes dove è stato presentato in anteprima mondiale lo scorso maggio, o chi dopo avere letto la sinossi o le pagine del romanzo dal quale è tratto, l’omonimo firmato da Pierric Bailly, aveva ipotizzato alla scorrere del programma della 25esima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce che Jim’s Story (Le Roman de Jim) potesse essere il film più caldo, intenso ed emozionante tra i dieci in concorso non si sbagliava. Tra coloro che lo credevano c’eravamo anche noi e ne abbiamo avuto la riprova al termine della proiezione alla kermesse salentina.
Del resto tutte le pellicole realizzate sino ad oggi da Arnaud e Jean-Marie Larrieu si sono sempre contraddistinte per l’elevata temperatura emotiva che sono state in grado di raggiungere, oltre che per la capacità di fare suonare le corde del cuore attraverso un moto perpetuo di sollecitazioni cangianti e contrastanti che arrivano dalla vicenda narrata e dai sentimenti provati dai personaggi che la animano. E quest’ultima fatica dietro la macchina da presa dei fratelli di Lourdes non è da meno anche grazie all’aiuto avuto dalla matrice letteraria, che ha contribuito e non poco alla causa e alla nascita di un’opera estremamente toccante. Lo è pure per merito del contributo dato dalle performance degli attori protagonisti, a cominciare da quella di un Karim Leklou particolarmente coinvolto e coinvolgente nei panni di un’uomo scapestrato appena uscito di prigione di nome Aymeric che una sera farà l’incontro che gli cambierà la vita. Sulla sua strada ricomparirà una vecchia conoscenza, una sua ex collega di Saint-Claude, nell’Haut-Jura, chiamata Florence. Lei è single, e incinta di sei mesi. Quando darà alla luce Jim, Aymeric è lì con lei. Insieme trascorreranno anni felici, finché un giorno farà la sua comparsa Christophe, il padre biologico del bambino.
Attraverso Jim’s Story torna così ad affacciarsi sullo schermo la domanda delle domande: i figli sono di chi li fa o di chi li cresce? Il libro prima e la trasposizione poi non si prendono la responsabilità di dare una risposta, ma provano con gli strumenti a disposizione di esprimere un parere, di riflettere e a fare riflettere a riguardo, raccontando e mostrando quello che potrebbe essere l’inizio di un melodramma oppure di un lungo viaggio verso la paternità. Ma lasciamo alla visione il gusto e l’emozione della scoperta. Quello che possiamo dire è che il punto di vista sulla questione spetta al protagonista che a differenza del titolo non è Jim bensì Aymeric, al quale i registi francesi affidano il timone e la voce narrante che accompagnerà lo spettatore nel corso di una timeline che scandisce lo scorrere delle stagioni della vita sua e degli altri personaggi intrecciando le numerose ellissi temporali.
Ma al di là del percorso esistenziale e di crescita dei singoli centrale rimane però il discorso sulla famiglia e delle sue dinamiche affettive. Tematiche, queste, che il cinema dei Larrieu ha spesso ripreso: Tralala, ad esempio, parla di un uomo in una città sconosciuta, che viene accolto da una famiglia. In Summer’s End e Roland’s Breach esploriamo i rapporti del nucleo familiare che esulano dai legami di sangue. In tal senso, gli autori hanno trovato nel libro di Bailly un’occasione per tornare su un argomento, quello dei legami in ambito domestico, che a loro sembra particolarmente caro. Il ché si evince dal numero di volte che lo hanno trattato attraverso storie che ne hanno esplorato attentamente aspetti, implicazioni, conseguenze, azioni e reazioni. Un magma incandescente che Jim’s Story ha approfondito ulteriormente attraverso un discorso sui rapporti genitoriali e la paternità, intrecciati in maniera fluida ed equilibrata con le relazioni amorose e la questione di classe, portandoci al seguito di gente come il protagonista che si arrabatta con lavori saltuari, spesso part-time. Tutto questo alimenta un racconto di grande spessore, onesto e di emozioni vere che trasudano dal primo all’ultimo fotogramma utile.
Francesco Del Grosso