Di opposte vedute
Cosa accadrebbe nella nostra società se non si potesse dimostrare che il Corano e Dio stesso vietano l’uso della violenza? Dobbiamo davvero mettere un limite alla fede degli altri se questa minaccia il nostro modo di vivere? Pensiamo di saperne più di Dio? Uno dei protagonisti è davvero un folle, un riformatore violento e sanguinoso, oppure è solo lo specchio sfocato dell’uomo moderno abbandonato da Dio? A queste domande il regista Jurijs Saule, con la complicità in fase di scrittura di Michail Lurje, ha provato con la sua opera prima dal titolo Martin Reads the Quran non tanto a dare delle risposte, perché il solo pensare di poterle fornire è già di per sé un atto di assoluta presunzione, piuttosto a stimolare un dibattito e sollecitare degli spunti di riflessione su argomentazioni e quesiti tanto vasti quanto complessi per essere racchiusi ed esauriti nell’arco narrativo di un film. Dopo la lettura della sinossi e prima di avventurarsi nella visione della pellicola firmata dal cineasta lettone di adozione e formazione tedesca, presentata in concorso alla 25esima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce, per non cadere in un misunderstanding e per venire subito a conoscenza di quelle che sono le regole d’ingaggio andavano dunque chiariti questi aspetti per permettere al fruitore di approcciarsi nel migliore dei modi all’opera.
Martin Reads the Quran racconta di un professore universitario, specializzato nell’interpretazione del Corano, che riceve la visita inaspettata di uno studente che chiede un colloquio. Lo studente è turbato e nervoso perché, pur avendo lasciato a casa moglie e figlia, sta per compiere un attentato in nome del suo Dio. L’insegnante dovrà convincere l’allievo a desistere utilizzando le stesse dottrine con cui altri hanno commesso crimini simili.
Iniziamo con il dire che al film e al suo autore il coraggio non manca, anzi ne hanno da vendere. Misurarsi con temi così scivolosi e dal peso specifico così rilevante, a maggior ragione all’esordio e in periodo così caldo, non è da tutti e questo a conti fatti, nel momento in cui si è chiamati ad esprimere un giudizio critico a riguardo, va tenuto in considerazione. Noi lo abbiamo fatto al punto da non mettere in discussione una sufficienza in pagella altrimenti messa a rischio da una regia davvero troppo invasiva, piena zeppa di soluzioni visive interessanti se prese singolarmente, ma che nel complesso risultano essere non funzionali e poco al servizio della componente narrativa e dei personaggi. La macchina da presa di Saule è perennemente in movimento e proprio questo moto esasperato ed esasperante in un 4:3 anch’esso futile finisce con il distrarre lo spettatore dalla storia e dai dialoghi, diventando manierismo fine a se stesso. La cinepresa in tal senso si trasforma nelle mani del regista nell’arbitro e nel testimone oculare di una disputa verbale tra uomini di opposte vedute, che si fronteggiano a botte di dialoghi e confronti accesi, dando vita sullo schermo a un duello attoriale ed etico che mette in discussione le religioni, la fede, le forze divine e soprattutto il fanatismo a cui possono condurre.
Il duello è quindi il cuore pulsante di un dramma da camera che si consuma su più fronti e in più topografie all’interno delle mura di un’università di Berlino. Dato l’impianto teatrale che riporta alla mente il classico di Joseph L. Mankiewicz, Gli insospettabili (rifatto nel 2007 da Kenneth Branagh), forse le tavole di un palcoscenico sarebbero state la cornice e la destinazione ideali per un testo come quello al quale abbiamo assistito in Martin Reads the Quran. Poi con attori come Zejhun Demirov e Ulrich Tukur a disposizione, le cui performance rappresentano un punto di forza, il cerchio si sarebbe sicuramente chiuso e la scrittura avrebbe trovato un’espressione e una casa migliori a teatro più che su uno schermo.
Francesco Del Grosso