Fuck the Police
Sulla sezione Irish Classic, che già in passato ci ha regalato perle come The General (1998) di John Boorman o The Boxer (1997) di Jim Sheridan, si può sempre fare affidamento. Per questa undicesima edizione dell’Irish Film Festa l’opera cinematografica finita in vetrina è forse un po’ meno nota, almeno presso il pubblico italiano, rispetto alle due precedentemente citate, ma l’appeal che ha conservato a distanza di oltre 25 anni dalla sua realizzazione è ugualmente robusto, diremmo quasi unico: trattasi di Into the West del quotato cineasta britannico Mike Newell, realizzato nel 1992 e uscito l’anno successivo anche in Italia con il logorroico titolo Tir-na-nog – È vietato portare cavalli in città. Praticamente epos moderno a misura di bambino con la suggestiva presenza dei Traveller, l’etnia nomade irlandese, a fare da cornice a una vicenda ricca di pathos.
Mike Newell avrebbe poi sfornato una discreta serie di film di successo, da Quattro matrimoni e un funerale (1994) a Donnie Brasco (1997), arrivando anche ad interfacciarsi con una delle saghe cinematografiche più popolari degli ultimi anni, al momento di girare Harry Potter e il calice di fuoco (2005). Ma tra i lungometraggi da lui diretti quello davvero magico a nostro avviso resta proprio Into the West. Proiettato alla Casa del Cinema in pellicola, così da saziare ulteriormente gli appetiti cinefili, il film di Mike Newell ritrae mirabilmente un’Irlanda sospesa tra realtà e mito, tra squallori contemporanei e desiderio di evadere dalla normalità.
Questo intenso racconto di formazione, che prende ben presto la direzione di un rocambolesco road movie, vede protagonisti i piccoli Ossie e Tito (molto azzeccato, per la vivacità espressa sul grande schermo, anche il casting che ha portato a selezionare i due giovanissimi interpreti), disposti a tutto pur di non farsi sottrarre da un gendarme corrotto il loro straordinario cavallo, ricevuto in regalo dal nonno e subito identificato con quel Tir na nÓg protagonista di antiche leggende gaeliche. Ecco, una delle maggiori abilità di Mike Newell, in quanto inglese ospite qui di un’altra cultura e di un’altra dimensione antropologica, è stata proprio quella di accarezzare il sostrato folklorico della narrazione con grazia infinita, facendo poi risaltare tutte le altre tensioni emotive ivi presenti, soprattutto quelle legate al mesto background famigliare dei protagonisti. Il padre, ridottosi a un’esistenza meschina e sedentaria a Dublino dopo aver rinunciato, in seguito alla tragica scomparsa della moglie, al nomadismo che tradizionalmente contraddistingue la sua gente, è infatti una figura in crisi, sbiadita, che riacquisterà nerbo soltanto grazie alla fuga dei due ragazzi e al desiderio di ritrovarli sani e salvi. Fino ad allora lo vediamo imbelle e soggiogato dal demone dell’alcol. Il fatto poi che tale delicatissimo ruolo sia stato affidato a un Gabriel Byrne stratosferico tanto nei momenti di maggior intimismo che negli slanci vitalistici (estremamente suggestive, anche fotograficamente, quelle scene notturne dal sapore dionisiaco che lo vedono accanto al fuoco, assieme agli altri Traveller), ci dice quanto siano state appropriate le scelte attoriali. Oltre a Byrne, autore tra l’altro di un bel messaggio inviato per l’occasione agli spettatori del festival, impossibile non segnalare l’allora emergente Brendan Gleeson, come sempre incisivo nel dar vita all’aura negativa dell’antagonista di turno, un poliziotto cinico e privo di scrupoli, pronto ad approfittarsi dei problemi di quella famiglia nomade per il proprio tornaconto personale. E così, quasi a completare il cerchio facendo duellare personalità di tale carisma, il confronto tra le bassezze della società odierna e il vigore dell’elemento naturale, arcaico, tradizionale, di cui si nutre l’epicità del racconto, si avvia verso un epilogo dal notevole impatto visivo.
Stefano Coccia