Il vento ci porterà via
Via col vento. Ma non un vento qualsiasi, trattasi qui di gigantesche trombe d’aria le cui raffiche arrivano a sradicare alberi, macchine, tralicci dell’alta tensione, case, scuole, finanche aerei di linea che sembravano tranquillamente ancorati al suolo, in una delle sequenze più ipertrofiche di un lungometraggio già di per sé votato all’eccesso. Il film sui tornado diretto dal poco credibile Steven Quale (suo, per esempio, Final Destination 5) sembra voler ammiccare alle fobie meteorologiche del pubblico americano, ancor più radicate dopo il rovinoso passaggio dell’Uragano Katrina, strizzando al contempo l’occhio ai fan del genere che ricordano, magari con nostalgia, prodotti cinematografici come l’ormai datato Twister. Tra il film diretto nel 1996 da Jan de Bont e questo Into the Storm ci sono, a livello di plot, delle analogie: a partire dalla presenza di “cacciatori di tempeste” che vanno volontariamente incontro ai tornado, per studiarli e riprenderli. Ma se Twister non era certo un capolavoro, in alcune scene del pittoresco update tentato da Steven Quale, sulle basi di uno script firmato John Sweetnam, si sfiora ampiamente il ridicolo.
Le premesse estetiche sono del resto quelle, sempre più abusate, del “found footage” quale approccio a una realtà destinata a passare, in breve, dalla banalità quotidiana alle situazioni più assurde, orrende, pericolose. In questo caso sono diversi i personaggi che, per vari motivi, si relazionano all’arrivo della tempesta senza mollare per un secondo la videocamera, talvolta a rischio della vita stessa. Eppure, se alcuni spunti non sono malvagi, tale scelta produce nei momenti di maggior dramma una serie di atteggiamenti balordi, caricaturali, insopportabilmente retorici come certe parole che escono dalle bocche dei protagonisti, proprio nei frangenti meno opportuni. Sparso qua e là c’è anche qualche genuino momento di tensione. E di certo al cinema non avevamo mai visto un tornado aspirare verso l’alto le fiamme di un incendio, abbrustolendo poi per benino un poveraccio risucchiato in seconda battuta. Ma queste trovate non bastano da sole a compensare le fasi di stanca di una sceneggiatura, che sforna tra l’altro parecchi personaggi incolori, le cui reazioni verbali di fronte alla tragedia oscillano tra ottusità, demenza e retorica. A proposito delle possibili inclinazioni retoriche ravvisate nel film, potrebbe suscitare qualche considerazione sarcastica il fatto che, tra tanti edifici in rovina e veicoli spazzati via come fuscelli, siano una banca e una chiesa le strutture risparmiate dalla furia dei venti, al momento di dare asilo ad alcuni sopravvissuti. Quasi a sottolineare la presunta “solidità” di determinate istituzioni. Ci stiamo giocando un po’ su, ovviamente, ma in Into the Storm non manca qualche coloritura fastidiosamente moralista, ai limiti del reazionario, sia nella caratterizzazione dei personaggi che in certi monologhi degli stessi davanti alla videocamera. Tutto ciò, unito a una costruzione della suspense che funziona solo a tratti, ci porta un po’ a rimpiangere i kolossal catastrofici di una volta, non altrettanto ipertrofici nella messa in scena ma sovente più genuini.
Stefano Coccia