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Intervista a Vittorio Moroni

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Conversando con l’autore di Se chiudo gli occhi non sono più qui

La disponibilità di Vittorio Moroni può essere definita proverbiale. Non solo nei confronti dei giornalisti o di altri addetti ai lavori, perché semmai è la capacità di stabilire un rapporto diretto col proprio pubblico a colpire di più, a risultare insolita; un rapporto fatto di presentazioni pubbliche come anche di chiacchiere libere e informali scambiate all’uscita del cine, di lunghi giri attraverso l’Italia per promuovere un nuovo film come anche di fotogrammi dello stesso donati agli spettatori accorsi per vederlo. Anche noi ci siamo confrontati piacevolmente, in passato, con un simile concentrato di sensibilità, intraprendenza e predisposizione al dialogo. Doti, queste, che sembrano contaminare tanto il carattere di Moroni che la sua peraltro interessantissima produzione cinematografica. Ed è per questo che, memori dell’impressione così forte lasciata in noi da Se chiudo gli occhi non sono più qui, alla sua prima apparizione festivaliera, lo abbiamo nuovamente rincorso in occasione dell’uscita in sala del film. Ne è nata la seguente conversazione, rivelatrice sia di circostanze specifiche legate alla realizzazione di tale lavoro, sia di quella poetica così intima che, a nostro avviso, è tra le più genuine del panorama indipendente italiano.

D: Se chiudo gli occhi non sono più qui era presente al Festival di Roma nel 2013, ma sappiamo anche che realizzare il film ha richiesto tempi lunghi e un impegno notevolissimo, da parte tua. Puoi raccontarci, Vittorio, la genesi di questo progetto cinematografico e le motivazioni profonde che te l’hanno ispirato?

Vittorio Moroni: Dalla genesi a oggi sono passati cinque anni. All’inizio c’era il desiderio di lavorare intorno all’adolescenza, cercare un modo per raccontare cose mie personali -evidentemente irrisolte- e contaminarle con quelle di un ragazzo che vive oggi quell’età. Per cercare di capire è stato necessario fare un tirocinio: per un mese sono stato ospite di un liceo scientifico sulla Prenestina, a Roma. Ho partecipato alle lezioni, conversato con gli studenti e con gli insegnanti e, insieme a Marco Piccarreda, cominciato a prendere appunti per una sceneggiatura. L’adolescenza è un momento sconvolgente. Per me almeno lo è stato. Un tempo in cui si chiede a tutto e tutti di essere all’altezza del proprio desiderio di grandezza e di pienezza. Domande estreme, ultimative. Risposte sospette e insufficienti.

D: Altro tempo è passato, prima che da quella incoraggiante apparizione festivaliera il tuo film potesse passare a una regolare distribuzione in sala. Cosa puoi dirci riguardo a questo e al diverso minutaggio, con cui viene proposto ora al pubblico?

Vittorio Moroni: Montare un film è un lavoro complesso e organico. Si finisce per essere irretiti dalle sequenze, per stare così costantemente con le immagini da non vederle più, da non sentirne più i pesi, le emozioni. Quando accade di vedere per la prima volta tutto quanto il film insieme ad un pubblico, si ritrovano le scosse, ci si sveglia dal coma. Per me e per Marco Piccarreda, che ha curato il montaggio, il festival è stato un’occasione per comprendere che il film non era ancora finito, che c’era ancora bisogno di tornare a lavorare in montaggio. Così abbiamo rivisitato alcune zone e ora il film è un po’ diverso e 14 minuti più breve. C’è voluto del tempo, sì, per arrivare in sala. Il tempo di trovare una distribuzione solidale e alleata, Maremosso con Lo Scrittoio, e di pensare insieme un percorso originale, che rispettasse la nostra storia e il nostro desiderio di continuare a fare distribuzione alternativa, trattando il film non come un prodotto da smerciare, ma come una creatura, e le sale come una casa temporanea e il pubblico come gli interlocutori più importanti, capaci di dare un senso ad una fatica enorme.

D: Ci accodiamo volentieri ai complimenti che tanti ti hanno fatto riguardo alle scelte di casting, con attori più o meno famosi, ma comunque molto bravi, ed esordienti assoluti portati qui a interagire proficuamente, trasferendo energia e naturalezza ai propri personaggi. L’argomento è lungo, ma vorresti raccontarci alcune di queste storie?

Vittorio Moroni: E’ molto importante, per me, quando so di non poter contare sull’esperienza e la tecnica attoriale, scegliere dei debuttanti che abbiano alcune caratteristiche fondamentali molto simili al personaggio che dovranno interpretare. Per Kiko, il protagonista, cercavo un ragazzo che conoscesse la condizione di orfano, che ne avesse avuto esperienza. Mark ha vissuto in modo lacerante il distacco dai nonni, che lo hanno allevato nelle Filippine e sono rimasti laggiù quando lui ha raggiunto i genitori in Italia all’età di 10 anni. Conosceva bene quei sentimenti, erano una parte profonda del suo essere. Mark Manaloto è stato scelto tra centinaia di coetanei di origine filippina anche perché nella sua vita ha attraversato esperienze importanti e sa entrare in contatto con la memoria in modo intenso e trasparente. Lui e Hazel Morillo, che interpreta la madre, entrambi al debutto, hanno lavorato per mesi con me e l’actors coach Rosa Morelli, cercando nessi profondi tra le vicissitudini dei personaggi e le proprie.
Con gli attori professionisti potevo contare sulla loro esperienza a trasformare il vissuto in tratti espressivi del loro personaggio. Giorgio Colangeli ha donato al personaggio di Ettore quello che desideravo e che era difficilissimo combinare: tensione spirituale, entusiasmo maieutico e un’anima nera, continuamente nascosta, assediata dal tormento.

Giuseppe Fiorello ha accettato la sfida di affrontare un personaggio antagonista, Ennio, salvaguardando l’umanità di chi, nel commettere errori, cerca una propria verità.
Molti bravi attori hanno regalato interpretazioni incisive in ruoli minori: Ivan Franek, Ignazio Oliva, Vladimir Doda, Elena Arvigo, Anita Kravos, Stefano Scherini, Igor Sancin… Se c’è una cosa di cui sono pienamente soddisfatto è come la totalità degli interpreti, anche nei ruoli più piccoli, abbia dato prova di personalità ed esattezza.

D: A livello di sceneggiatura colpisce il costante riferimento alla filosofia, a determinati maestri del pensiero, come anche il ritratto di un’adolescenza inquieta, in bilico tra i ricordi malinconici di un padre naturale scomparso troppo presto e qualche nuovo modello paterno destinato magari a rivelare, strada facendo, la propria intima fragilità. Ci sembra che questi due temi siano in qualche modo correlati, pensi anche tu che sia così? E sono quindi discorsi che ti stanno particolarmente a cuore?

Vittorio Moroni: Kiko, il protagonista del mio film, è un adolescente che non scorge vie d’uscita alle tenebre in cui si è perso il suo presente.
Non riesce a sognare un futuro perché nessuna delle persone che gli stanno intorno sembra capace di sognare con lui.
Però ha vissuto un passato indimenticabile, con suo padre. Per questo Kiko crede che la felicità stia nel passato, non nel futuro.
E per questo cerca disperatamente, tra le leggi dell’universo, l’autorizzazione a sperare che il tempo non sia lineare, ma ciclico.
Che quel che è stato non sia perduto per sempre, ma possa tornare, infinite volte.
Quando Ettore, il suo strano amico-maestro, irrompe nella sua vita, cerca di aiutarlo proprio in questo: a ripensare la forma dello spazio e del tempo.
E gli presenta degli “amici” che hanno percorso queste strade. Sono due grandi filosofi: Nietzsche e Leopardi. Anche loro, come Kiko, sono tormentati dalle stesse domande.
Ettore è convinto che il pensiero filosofico insegnerà a Kiko a sopravvivere e ad avere il coraggio di amare il proprio destino.
Perché il pensiero filosofico è il pensiero che pensa tutti gli altri pensieri, anche l’impensabile.
E a fare i conti con il grande tema dell’umanità: il mio nemico, prima di essere mio nemico, è un uomo, proprio come me.
Nell’infanzia di Kiko il padre, appassionato di astronomia, gli consegna un tesoro prezioso: un piccolo meteorite. Un sasso attraverso cui la vita è arrivata sulla Terra.
Anche Ettore e Kiko sentiranno il bisogno di fissare le loro domande su qualcosa di fisico, dei sassi bianchi. E di poter un giorno riconsegnare queste pietre e le domande che contengono all’acqua del fiume.

D: Si conferma nel tuo cinema un interesse particolare per i temi dell’immigrazione, della diversità, dell’integrazione, mai declinati però in maniera banale o subalterna a certi dettami del cinema d’impegno civile. Come percepisci tu questa diversità d’approccio, umano e narrativo, che a noi sembra di riscontrare nei tuoi film?

Vittorio Moroni: Dire immigrazione è dire un tema troppo vasto. Per me si tratta sempre di raccontare personaggi singoli, irriducibili a categorie, e storie speciali, uniche. E’ l’unica strada per sperare di afferrare temi universali. Kiko è un adolescente che vive in un luogo isolato del nordest. Prima di avere origini filippine è un essere umano che vive i suoi 16 anni nell’Italia di oggi, disperata, in un sobborgo del nord est, tra l’inverno e la primavera. I suoi problemi sono in gran parte gli stessi che hanno i suoi coetanei: un futuro che sembra essere stato cancellato, un presente che non lascia il tempo di conoscere se stesso e il mondo e già pretende sacrificio, investimento, tempo dedicato alla produzione. Certo, Kiko ha anche una madre filippina e conosce una lingua, il tagalog, che i suoi compagni di classe non comprendono e del suo Paese d’origine conserva il mito e relazioni a distanza con nonni e parenti che hanno aspettative su di lui e nostalgie. Kiko appartiene alla cosiddetta seconda generazione, è una persona che non può fare a meno di fare i conti con i sogni propri e della generazione precedente, che deve decidere cosa prendere e cosa lasciare nei propri bagagli. Questa complessa questione che riguarda il grande negoziato culturale delle seconde, terze generazioni, è una declinazione del cosiddetto tema migratorio che mi affascina e mi interroga moltissimo. E che deciderà molto del futuro del nostro Paese.

D: Altro punto di forza ci sembra la scelta delle locations. Come mai hai scelto di ambientare la storia nel nord-est italiano e quali sono i tratti peculiari di quei luoghi, che volevi risaltassero sullo schermo?

Vittorio Moroni: Ho cercato a lungo dove ambientare il film perlustrando invano Puglia e Lazio; infine un paesino, a pochi metri dai luoghi natali di Pasolini, mi ha trovato, grazie ad un amico e alla collaborazione della FVG Film Commission. Era perfetto: una pianura dimenticata nell’inverno, lontana dalla città ma non bucolica, un vecchio bar, posto di transito per camionisti, strade attraversate giorno e notte dai tir, una discarica di vecchi autobus, trattori e furgoni arrugginiti che negli anni hanno ospitato arbusti e rovi… tutto somigliava a quel che era stato immaginato. Un posto reale, Codroipo, e al tempo stesso un milione di altri posti simili nel mondo.

D: La tua carriera cinematografica si è finora dipanata esplorando sia i territori della fiction che quelli del documentario. Su che strada ti stai incamminando ora? C’è già qualche progetto avviato e di che natura dovrebbe essere?

Vittorio Moroni: Ci sono molti territori nuovi che vorrei provare ad esplorare: una di queste è la dimensione del sogno, tutto ciò che sappiamo e non sappiamo di sapere. Ci sto lavorando…

Stefano Coccia

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