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Intervista a Matteo Russo

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Il regista di “Lux Santa” ci racconta come è nata la sua opera

Dopo la visione di Lux Santa, documentario girato da Matteo Russo nella sua terra, la Calabria, che racconta la storia di quattro ragazzi intenti alla preparazione del Fuoco di Santa Lucia per la festa patronale, tra tradizione e quotidiana realtà, abbiamo avuto la possibilità di parlarne con il regista, che ci ha sviscerato l’anima del suo film e raccontato alcune curiosità.

D: Da dove è venuta l’idea?
Matteo Russo: Fondamentalmente Lux Santa nasce in un periodo di pandemia, dove ci siamo resi conto insieme a Carlo Gallo, che è l’autore con cui ho anche scritto il film, che i “fuochi” in città si stavano andando a perdere. E quindi l’idea iniziale è nata perché volevamo lasciare un documento che rimanesse, che potesse essere rivisto dopo anni, perché le nostre tradizioni si stavano un po’ sgretolando.

D: Quindi il film è nato proprio dall’idea del fuoco?
Matteo Russo: Sì, esatto, inizialmente è nato proprio dal documentare questa tradizione. Però d’altra parte volevamo cercare di universalizzare la tradizione e renderla più appetibile anche a un pubblico extra regionale. Per cui mi sono detto che con questo film c’era anche la possibilità di raccontare un pezzettino della mia età adolescenziale, perché quando ero piccolo anche io facevo i fuochi di Santa Lucia; quindi era quella età in cui a 16-17 anni, anche 18, soprattutto per una città del sud Italia ti ritrovavi ad affacciarti quasi alla vita adulta, perché devi prendere delle scelte, se partire o restare.
Fondamentalmente capisci come questa adolescenza si stia iniziando a sgretolare e d’altra parte ti affacci all’età adulta, motivo per cui ho pensato alla tradizione popolare di Santa Lucia, sono andato a cercare dei ragazzi con cui potevo realizzare un film quasi fosse un loro coming of age, visto che attraverso la costruzione di tale opera cresce all’interno del loro animo la consapevolezza di affacciarsi alla figura adulta.

D: Dipingi un quartiere di Crotone particolarmente difficile, il Fondo Gesù. C’è molto di più della tradizione del fuoco nel tuo film, descrivi anche la situazione dei ragazzi di questo quartiere.
Matteo Russo: Sì, esatto. La ricerca dei ragazzi è durata circa un annetto, poi quando abbiamo trovato i ragazzi del rione “Fondo Gesù – che io ovviamente prima del film ho intervistato, facendoci una ricerca sopra di circa un anno – ci si è aperto un mondo. Abbiamo trovato questi 4 protagonisti che erano accomunati da una sorta di dolore dato dall’assenza della figura paterna o comunque della figura adulta, quindi ci siamo detti noi ‘dobbiamo raccontare questo’, dobbiamo raccontare come questi ragazzi attraverso la tradizione dei fuochi di Santa Lucia riescano un po’ anche a superare i loro problemi. Poi d’altra parte abbiamo capito da subito che la tradizione popolare dei fuochi di Santa Lucia per questi ragazzi diventava forse l’avamposto per urlare al mondo la loro esistenza. C’è anche questo messaggio di speranza che loro cercano, soprattutto di come questo luogo diventi forse proprio il luogo della confessione dove, intorno alla tradizione, intorno alla raccolta della legna, intorno alla costruzione, ci siano anche dei momenti in cui i ragazzi si possono dire cose che tra loro non si sono mai detti. Quindi abbiamo cercato di universalizzare il messaggio attraverso questa tematica.

D: Nel film si vedono i murales di Rino Gaetano di Jorit e quello di Jonathan Porto di Claudio Chiavallaroti. Come mai queste due figure? Rino Gaetano è un simbolo di speranza, ma Jonathan Porto?
Matteo Russo: Jonathan fondamentalmente è un loro compagno, un amico che hanno perso, che è quello che loro vanno trovare al cimitero nella scena del cimitero. Era uno di loro, quindi in un contesto così difficile racconta anche il dolore della perdita, un minimo mi piaceva di raccontare il dolore di questi ragazzi, per amici loro che sono scomparsi. Poi è chiaro che il riferimento a Rino Gaetano è un riferimento al sud in generale, di una persona che ha lasciato il sud quand’era molto piccolo e ha trovato fortuna altrove; anche grazie alla sua famiglia, certo, ma era fondamentalmente un riferimento alla Calabria intera.

D: Rino Gaetano cantautore, Jonathan Porto calciatore. La musica e lo sport come strumenti per uscire dal baratro di questo posto, per salvarsi?
Matteo Russo: Sì, esatto. Tra l’altro cosa succede? Quando questi ragazzi noi li abbiamo conosciuti, una delle cose che ci ripetevano più volte, motivo per cui poi abbiamo deciso di insistere sulla tematica, è che loro pensano ‘io non voglio vivere per strada, non voglio fare gli stessi errori di mio padre, io voglio diventare grande’. E allora abbiamo detto, ecco, grazie anche alla partita di calcetto, al divertimento in discoteca, esorcizzano quel loro senso di mancanza.

D: Nel film c’è anche la speranza per i ragazzi, il loro desiderio di voler fare qualcosa di belle delle proprie vite. Il fuoco di Santa Lucia: Il fuoco come rinascita e speranza. Il fuoco come elemento primordiale e la metafora della luce che i ragazzi cercano e ritrovano in loro stessi. Un rito collettivo che unisce oltre i dissapori, lavorare insieme per un fine comune, un rito che inizia con la raccolta della legna, passa attraverso la costruzione della piramide e trova il suo apogeo con il fuoco che brucia.
Matteo Russo: Sì, infatti quando abbiamo ragionato un po’ di più su quello che volevamo raccontare, ci siamo resi conto che avevamo a che fare con l’elemento primordiale per eccellenza che è quello del fuoco. Il fuoco che brucia, diventa luce, il fuoco che trasforma, quindi abbiamo deciso fondamentalmente di ragionare anche da un punto di vista cromatico, da un punto di vista simbolico, di questa luce che illumina le vite buie dei ragazzi, ma anche giocare molto sul fatto che il fuoco da una parte trasforma perché brucia, quindi questa costruzione, questo bruciare un po’ trasforma anche le loro vite, fondamentalmente. E da questa esperienza ne escono con un bagaglio diverso, col senso d’aver acquisito una maturità diversa.

D: Lux Santa è un documentario ma anche un film di finzione. Qual è il tuo rapporto con il Neorealismo?
Matteo Russo: Dopo aver deciso la parte narrativa, che è una parte narrativa che noi non avevamo completamente scritto, non avevamo cioè una sceneggiatura completa, non abbiamo mai consegnato una sceneggiatura ai ragazzi, avevamo un canovaccio di ruoli e tematiche, abbiamo portato questi personaggi in questi luoghi dove poter raccontare queste tematiche. Il film ha questo approccio in termini di linguaggio, aveva l’obiettivo di porre lo spettatore di fronte a questo muro invisibile tra realtà e finzione perché volevo che chi vedesse potesse dubitare su alcune cose. Io vengo da cortometraggi totalmente di fiction quindi volevo dare un tocco di finzione al film e l’ho dato attraverso il linguaggio, perché poi alla fine le storie, la narrativa, la struttura drammaturgica è del tutto reale, i personaggi fondamentalmente non sono personaggi ma sono delle persone perché raccontano le loro storie, le storie sono al 100% reali come alcune situazioni, alcune dinamiche che ci hanno portato poi a distruggere questo canovaccio che avevamo. Per esempio la scena del litigio: la scena del litigio è totalmente reale, ovvio che poi su quella scena del litigio abbiamo avuto la necessità di costruirci sopra una struttura, una linea narrativa fondamentalmente, però questo era uno degli obiettivi principali, realizzare un film di documentario ma che avesse un linguaggio molto cinematografico, molto da fiction.

D: Nel 2014 hai lavorato anche come assistente alla regia con Massimiliano Bruno, in Confusi e felici. Come è stato lavorare con lui?
Matteo Russo: Massimiliano è stato il primo regista con cui mi sono approcciato, la primissima esperienza fatta con lui mi ha fatto capire quanto volessi fare questo lavoro, quanto volessi cioè realizzare delle opere mie, scrivere e anche dirigere opere personali. Poi ho fatto anche altre cose, ma con Massimiliano c’è sempre stato un confronto autoriale, un confronto tra colleghi.

D: Hai studiato alla New York Film Academy nella sede di Los Angeles dove hai girato Tell Me Your Name. Qual è la differenza tra lavorare in Italia e lavorare in America?
Matteo Russo: Sì, io alla New York Film Academy di Los Angeles ho avuto la possibilità di realizzare questo cortometraggio di diploma in un ambiente totalmente diverso da quello italiano. La differenza sostanziale credo che sia la meritocrazia. Perché in America se tu vali le tue opere vengono viste e tu vieni valutato per quello che vali non perché hai fatto un determinato percorso o hai conosciuto nella tua vita determinate persone. È molto più rispettato e valorizzato come lavoro e a differenza dell’Italia, dove si cerca di capire dove si può andare rispetto alle persone che hai conosciuto, lì è diverso, lì tu fai vedere i tuoi lavori e se vali bene, vieni valorizzato, altrimenti ti guidano per arrivare a dei risultati ottimali.

D: Nel 2020 hai fondato il Calabria Movie International Short Film Festival. Ci vuoi parlare di questa realtà, di quanto è stato difficile crearla, delle difficoltà che hai affrontato?
Matteo Russo: Nel 2020 ho deciso di realizzare insieme ad Antonio Buscema e Luisa Gigliotti un festival che nascesse un po’ dal desiderio di far emergere quelli che sono i talenti emergenti locali e metterli in relazione con i talenti o comunque le produzioni nazionali. Crotone è una piccola cittadina del sud Italia che fatica moltissimo a creare e costruire cultura, quindi era difficile per noi anche avere un luogo dove poter incontrare i nostri colleghi o dove poter praticare il nostro mestiere. Motivo per cui abbiamo deciso di realizzare il festival, che è nato 6 anni fa e adesso ci approcciamo alla 6a edizione. Non è stato facilissimo all’inizio perché Crotone in quel periodo aveva un’amministrazione comunale commissariata, eravamo piccoli, quindi abbiamo veramente iniziato con uno schermo e 50 sedie per poi crescere sempre di più ed avere fortunatamente il supporto ad oggi del Comune di Crotone, della Calabria Film Commission, del Ministero. Ci siamo rimboccati le maniche molto su questo progetto, che ha preso molto della mia vita e continua a prendermi molto ma lo faccio veramente con il cuore perché se c’è una cosa che ho come mio obiettivo personale è quello di cercare di mettere in rete me e i miei colleghi il più possibile. Da qualche anno abbiamo creato anche una parte industry dove il nostro obiettivo è quello di mettere in relazione sia gli autori emergenti locali con le produzioni nazionali e sia proprio gli autori emergenti italiani, cercare di far arrivare le loro storie ai produttori nazionali.

D: Questa è una visione molto più viva all’estero, dove il corto è usato soprattutto come vetrina per avere la possibilità di fare altro. Cosa ne pensi?
Matteo Russo: Noi tre abbiamo sempre creduto nella potenza del cortometraggio, non solo come biglietto da visita per farti conoscere come è visto in Italia, ma noi consideriamo la potenza del cortometraggio anche a livello narrativo, motivo per cui nella nostra sezione industry abbiamo realizzato questa ulteriore sottosezione che è Shorts to Future che parte da cortometraggi già realizzati, quindi da autori che hanno già un cortometraggio realizzato ma che hanno il desiderio che quel cortometraggio diventi un lungometraggio. Operazione che all’estero si fa moltissimo, il fatto di partire da un corto per poi fare un lungometraggio, e quindi cercare di dare anche un futuro diverso al corto, non solo che finisca ai festival o sulle piattaforme ma che abbia anche uno sviluppo suo nelle opere di finzione nei lungometraggi.

D: Quanto è importante per te la Calabria, nel modo di scrivere e di fare cinema?
Matteo Russo: Credo che sia il tassello più importante in quello che vado a raccontare, perché mi sono sempre portato dietro il mio bagaglio dell’infanzia, di questa città, di questa Calabria che mi ha cresciuto. Oggi, dopo 12 anni che sono partito, che ho lasciato Crotone, mi sono ritrovato a tornare nella mia città; io adesso vivo di nuovo in Calabria e mi sono ritrovato un po’ a scontrarmi sul fatto che gli stimoli veri e propri ce li ho qui e non magari al di fuori. È chiaro che adesso invece quello che mi interessa è raccontare una Calabria diversa, diciamo dare alla Calabria una narrazione un po’ differente rispetto a quella che c’è sempre stata, però quello che mi incuriosisce tantissimo è capire ancora ad oggi chi vive in questi luoghi e soprattutto COME vive questi luoghi. Quindi sicuramente una mia prerogativa è quella di cercare di portare la mia regione nelle mie strutture narrative.

D: Un’ultima domanda: la distribuzione di un film indipendente è difficile in Italia?
Matteo Russo: Sì. Quello che stiamo riscontrando è che comunque, nonostante ci sia dietro un lavoro di una società di produzione e di una società di distribuzione, che è Cattive Distribuzioni, la difficoltà sulle sale è palpabile, nel senso che le sale preferiscono chiudere piuttosto che rischiare con un film indipendente e di fare 10 posti, 10 paganti. Quindi stiamo trovando delle difficoltà soprattutto nella distribuzione, ma credo che quello che stiamo ottenendo è un grandissimo risultato, perchè non è poi scontato che un film di documentario girato in Calabria, o comunque un piccolo film, possa arrivare in diverse sale italiane.

D: Vuoi aggiungere qualcosa?
Matteo Russo: Questo film è stato realizzato anche grazie a Orazio Guarino e Marco Santoro (i produttori, ndr), che mi hanno seguito fin dall’inizio e mi hanno dato la possibilità di fare questo film; ringrazio anche la Calabria Film Commission, Rai Cinema, però se c’è un motivo per cui oggi ci troviamo qui in sala, con un film che non è poi così facile, perché a livello distributivo questi film faticano tantissimo, è anche grazie a questi ragazzi, che hanno deciso di regalarmi la loro vita, le loro storie, in primis a me e poi appunto aprirle a tutto il pubblico.

Michela Aloisi

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