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Intervista a Marta Bergman

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Per un Cinema “nomade”

La regista rumena Marta Bergman è approdata a Roma per presentare Sola al mio matrimonio (Seule à mon mariage), suo esordio nel lungometraggio di finzione dopo una serie di documentari cinematografici e televisivi incentrati sul mondo nomade. Abbiamo colto l’occasione per intervistarla.

D: La prima domanda è quasi obbligatoria. Dopo aver scritto e diretto per quasi 30 anni documentari, sei passata al formato della “fiction”. Sono passati 10 anni dal tuo ultimo lavoro intitolato Clejani. Come mai ora questo cambiamento, dopo tanti anni?
Marta Bergman: Non c’è stato un desiderio di “cambiare”, ma più il desiderio di una “continuazione”. Per me non c’è una vera frattura fra documentario e fiction. Si tratta comunque di cinema e il cinema è un modo di raccontare storie. Anche nella fiction c’è una qualcosa di documentaristico e anche il documentario può ricadere a tratti nella fiction. Ci sono molte persone vere che ho incontrato, le cui esperienze ho portato con me e, lentamente, è così nato nella mia mente il personaggio di Pamela. Che è comunque un modo di raccontare delle vere storie.

D: Hai lavorato molto, infatti, con le comunità nomadi. Da dove nasce questa tua passione per la cultura gitana? Sei nata in Romania ma questo non è sufficiente, credo, per spiegare il tuo interesse.
Marta Bergman: No infatti. Si tratta di qualcosa che nasce anzitutto dal piacere di ascoltare la loro musica, di ascoltare i loro musicisti. A Clejani viveano molti musicisti di talento. Tornai quindi in Romania in questo villaggio dove suonava il gruppo dei Taraf de Haïdouks. Sono rimasta per un po’ di tempo in questo villaggio, ho vissuto con queste persone, divenendo anche molto vicina con alcune di esse. Mi sentii molto ispirata dalle loro storie, mi piacevano le loro personalità, il loro modo di essere. Ovviamente non volevo generalizzare e fare un film sul folklore etnico, ma ho cominciato a sentirmi molto a mio agio con loro, non so è propriamente il modo zingaro di essere, ma si trattava di personalità poco convenzionali con le quali mi trovai piacevolmente. Naturalmente non ci sono solo risvolti positivi. Lo dico perché c’è anche un certo “machismo” nel comportamento generale. Le donne non sono trattate molto bene e per loro è più difficile vivere in queste comunità. Sono molto consapevole e preoccupata di questa situazione. Non l’ho mai trovata piacevole, l’ho conosciuta, l’ho vista in prima persona. Quindi ho visto sia gli aspetti positivi che quelli negativi di questa cultura.

D: Torneremo infatti dopo sulla questione delle donne. Durante il tuo ultimo viaggio vicino Bucarest, in preparazione di questo film, hai detto di aver parlato con molte persone, molti giovani. Ti è sembrato ci sia stato qualche cambiamento nella cultura zingara, da quando hai cominciato a lavorare durante gli anni ’90?
Marta Bergman: Non voglio generalizzare, ma mi pare che sì, il cambiamento ci sia. Le persone sono molto più consapevoli di quello che succede nel resto del mondo. Oggi sono connesse grazie a Internet, molto anche. Il desiderio di andare via è però ancora molto forte. Sanno, meglio di prima, di quanto questo sia difficile, ma questo sogno, questa fantasia, è tutt’oggi potente. E quello di cui tutti parlano è di come andare via, di come fuggire da questa condizione. E cercano di immaginare come fare, di come riuscire ad andare da qualche altra parte.

D: E’ un film questo, a mio parere, che non parla solo di zingari, ma che affronta tematiche che possono riguardare tutti. Ho notato che in questo film c’è tanta solitudine, ogni personaggio è molto solo a modo suo. Non parlo solo di Pamela o di Bruno, anche Marian (l’amico di Pamela nel villaggio in Romania ndr) è sempre solo, è da solo che gioca a calcio.
Marta Bergman: Pamela è molto sola nella sua comunità. Quando accetti la tradizione e la cultura della comunità c’è un qualche tipo di solidarietà (anche se non così forte come immaginiamo), Pamela è però un’outsider. Ha una bambina e la cresce da sola, già questo per gli altri la contraddistingue quasi come una prostituta. Marian è il tipo di persona sola che si può trovare ovunque in questo mondo, è certamente una figura contemporanea. E’ una società molto dura. Non voglio fare generalizzazioni sulla cultura zingara, perché è molto complessa, fatta di diverse persone e differenti famiglie. Ma c’è comunque una tradizione. Se ti attieni alla tradizione puoi aspettarti qualche genere di aiuto, ma se ti discosti rimani solo.

D: Parlando proprio di tradizione. Durante Sola al mio matrimonio Pamela parla molto spesso del fatto che a lei non piace il modo in cui gli uomini trattano le donne. Lo dice a più riprese. In un momento molto drammatico lei immagina per esempio che Bruno stia per picchiarla, perché questo le sembra quasi naturale. Bruno ha comunque una serie di problemi ma, a modo suo, tiene a Pamela e cerca di essere gentile. Nonostante questo Pamela si invaghisce di una sorta di criminale incontrato in discoteca. Una sorta di “visione culturale” degli uomini che in qualche modo lei si porta dietro. Cerca quindi di fuggire fisicamente, ma non riesce a farlo da certi aspetti culturali in cui è cresciuta.
Marta Bergman: Questo villaggio in cui sono stata aveva un ambiente molto “machista”. La cultura zingara lo è, la mascolinità è un valore molto forte per loro, con tutto ciò che questo comporta. Le donne sono spesso picchiate, l’ho visto. Quando ho parlato con loro, molte mi dicevano che ritengono gli uomini delle altre parti migliori. Loro realmente pensano che altrove le donne siano trattate in modo molto più gentile che nella loro comunità. Lo pensano, ma poi Pamela ha questa esperienza erotica con un tizio che è di un genere di uomini che lei già conosce. E’ un istinto. Però è anche vero che Bruno cerca di essere carino, ma non credo lo sia poi così tanto, non è così generoso. Cerca di essere educato, gentile, ma non è realmente curioso di Pamela. E’ davvero attratto da lei solo quando si rende conto che gli altri uomini la apprezzano.

D: Mi piace molto il tuo modo di usare la telecamera. Ti concentri sui volti, sui gesti e su una gran quantità di piccoli dettagli. Ritieni che il tuo lavoro come documentarista abbia contribuito in questo o sei un’osservatrice naturale?
Marta Bergman: Penso che queste due cose vadano di pari passo. Volevo comunque ottenere una sensazione fisica ed emozionale molto forte, quindi prima di filmare abbiamo pensato di porre grande attenzione alle mani, ai corpi. Il risultato è quindi parte di decisioni che abbiamo preso e di cui gli attori fanno parte. Abbiamo lavorato sul linguaggio del corpo prima di cominciare. Non volevamo che le cose fossero “spiegate” nel film, non mi piacciono le spiegazioni. Abbiamo cercato invece in quella direzione, la direzione del linguaggio del corpo.

D: Parlando di linguaggio del corpo, ho visto che Tom Vermeir, in particolare, ha fatto un lavoro sorprendente, creando un uomo timido e fragile proprio con l’uso del suo corpo. Anche Alina Serban ha una presenza potente sul set. Pensi che lavorerai ancora con loro?
Marta Bergman: Quando ho scritto la sceneggiatura, ho pensato subito a Tom Vermeir, ma lui è stato davvero grande, non pensavo avrebbe fatto un lavoro così prezioso durante le riprese. Quindi con lui penso di sì. Con Alina ancora non lo so perché lei è molto vicina come carattere al personaggio del film, a Pamela. Stiamo parlando di una persona in gamba, intelligente, molto molto brillante. Ma per certi versi già molto vicina al personaggio di Pamela. Tom invece è molto più vicino allo spirito di mimesi cui penso quando immagino un attore. E’ Bruno, ma può essere anche qualcuno molto diverso. Si traforma! Posso davvero immaginarlo e vederlo in molte altre trasformazioni. Quindi penso che lavorerò ancora con Tom. Forse anche con Alina, ma non lo so ancora. Vedremo!

Massimo Brigandì

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