Con il trucco ma senza l’inganno
Ci sono interviste e interviste, quelle che una volta terminate non ti lasciano niente e altre che, al contrario, lasciano un segno indelebile, perché capaci di consegnare un bagaglio richissimo in colui che pone le domande. Quella che abbiamo avuto la fortuna e l’onore di realizzare con Giannetto De Rossi, storico e importantissimo make up artist ed effettista di fama internazionale, con alle spalle anche qualche esperienza dietro la macchina da presa come regista, fa parte della seconda categoria.
L’occasione fa l’uomo ladro e quella per portarsela a casa si è materializzata nel corso della 35esima edizione del Torino Film Festival dove, quello che consideriamo – e non siamo gli unici – una figura centrale e un illustre esponente del panorama del trucco cinematografico mondiale, era presente per accompagnare la proiezione e la promozione della sua ultima fatica, ossia Seven Sisters di Tommy Wirkola. Ultima di una carriera lunghissima, che lo ha visto impegnato sui set di tutte le latitudini, al fianco di cineasti di grande fama: da Leone a Lynch, da Visconti a Young, da Zeffirelli a Chabrol, da Scola a Fellini, passando per Cameron.
Nipote e figlio d’arte, De Rossi ci ha trascinato per mano in un viaggio entusiasmante alla scoperta del suo modo di fare e concepire il mestiere. Un viaggio fatto di parole, del quale speriamo di essere riusciti a restituire in questa pubblicazione – anche solo in parte – le stesse emozioni che abbiamo provato noi mentre lo affrontavamo. Location designata per questo entusiasmante face to face una delle sale al primo piano dell’hotel Principi di Piemonte, mentre fuori le basse temperature annunciavano l’imminente arrivo della neve.
D.: Cominciamo dalla fine: quali sono state – e se ci sono state – le difficoltà che hai incontrato sul set di Seven Sisters e quali sono le impostazioni che vi siete dati con il regista Tommy Wirkola?
G.D.R.: Ho fatto come mi pareva! [sorriso] Attenzione, questa non vuole essere una risposta da snob o da megalomane. La verità è che nella stragrande maggioranza dei casi il regista non sa cosa vuole esattamente e siamo noi truccatori, tra cui io, a doverglielo dare. Nel caso di Seven Sisters, Wirkola sapeva solamente che bisognava creare e dare una forma a sette personaggi completamente diversi, avendo a disposizione un’unica attrice chiamata a impersonificare. Otto personaggi per l’esattezza, poiché c’era da creare anche quello fittizio di Karen Settman, ossia l’identità comune con la quale le sette sorelle affrontavano quotidianamente il mondo esterno. Per il film sono stato contattato dalla co-produttrice italiana Raffaella De Laurentiis, dopo il rifiuto di molti nomi noti del trucco internazionale. All’epoca della proposta sinceramente non conoscevo Noomi Rapace e prima di accettare sono andato a cercarmi su internet un suo primo piano. Ho visto il suo volto, ho visto che su di esso c’erano tutti gli spazi giusti e ho accettato. Ho avuto carta bianca nel processo di creazione dei singoli personaggi, ma ho comunque voluto parlare con il regista e con il D.O.P. prima dell’inizio delle riprese, per chiedere loro espressamente di non virare il colore della fotografia, poiché c’è la moda ormai diffusa di farlo o di togliere persino i colori. Mi sono assicurato che queste non fossero le intenzioni finali, perché se lo fossero state avrei abbandonato seduta stante il progetto. Il rischio era che sarebbero sembrate tutte uguali sullo schermo ed era una cosa che non volevo assolutamente. Loro dovevano fidarsi al 100% di me, illuminando quello che gli mettevo davanti la macchina da presa. Il regista è uno e uno solo e va rispettato, perché ha una sua idea ben precisa del film in testa, ma sta comunque a noi che al film collaboriamo, ciascuno con le proprie tessere, aiutarlo a comporre il mosaico. Dunque, lo aiutiamo a dare forma alla sua visione artistica. Ognuno deve sapere che cosa fa, ma senza ego. L’ego lasciamolo a casa. Per carità, le schifezze le fanno tutti e anche io ne ho fatte nella mia carriera, ma bisogna mettersi umanamente nella condizione di provare a non farle. E alla base di questo c’è la fiducia, il dialogo tra le parti coinvolte e il rispetto nei confronti del lavoro altrui. Se viene meno anche solo uno di questi elementi, allora il rapporto risulterà compromesso e l’esito ne risentirà pesantemente.
Tornando a Seven Sisters, lì sono andato a lavorare sui mezzi toni. Ognuna delle sorelle andava personalizzata e cercata con meticolosità. E con la Rapace abbiamo fatto questo: siamo andati a cercare ciascuna di loro. In fondo cos’è il trucco? Il trucco è la tecnica per modificare una scultura con la pittura e non è facile. Ogni cosa ha un perché e tutte le volte chiedo alle persone con le quali mi tovo a collaborare il motivo di una scelta rispetto a un’altra. Tutto è il frutto di un ragionamento. Lei questo lo ha capito e si è messa completamente a disposizione. Ad oggi posso affermare con certezza che è l’attrice migliore con la quale ho avuto modo di lavorare in tutti questi anni. Quando ho visto sul set che riusciva a piangere in cinque modi diversi nello stesso giorno, allora ho capito che quella davanti a me era una grandissima attrice. Se penso che per riuscire a far piangere un’attrice nostrana bisogna spararle negli occhi sette tonnellate di mentolo, mi viene da ridere [sorridendo]. Lei, invece, non ha mai avuto bisogno di nessun aiuto in tal senso. Per questo la ritengo una grandissima attrice, una delle migliori al mondo, e ho avuto una fortuna spacciata ad averci lavorato, perché ci mette tutta se stessa e non si risparmia mai.
Sono pochissimi i film in cui il trucco influisce in maniera determinante sulla sua riuscita, ma questo è uno di quelli, perché se avessimo sbagliato i 7 + 1 personaggi che lo animano, avremmo firmato la sua condanna a morte sullo schermo. Il risultato sarebbe stato una sorta di famiglia Addams. Nonostante si trattasse di un film di fantascienza, il mood doveva essere comunque realistico.
D.: Facciamo un salto nel passato ai tuoi esordi. Sei figlio e nipote d’arte, quanto questo ha influito sulla decisione di intraprendere il mestiere del truccatore per il cinema? Cosa hai conservato e portato con te delle tecniche di tuo padre e di tuo nonno?
G.D.R.: Assolutamente niente, perché in realtà non lo volevo fare. Come tutti i ragazzi, una volta finiti gli studi volevo mettermi in tasca qualche soldo e quale occasione migliore per farlo se non quella di andare ad aiutare mio padre sul set. Inizialmente mi faceva asciugare il sudore dalle facce degli attori, poi sul set di Cleopatra mi ha affidato compiti più impegnativi, come quello di dipingere gli uomini marmo. Da quel momento ho iniziato ad appassionarmi a quel mestiere. E da lì è partito tutto. A differenza di mio padre ho deciso di firmare anche gli effetti trucco, cosa che a lui non piaceva fare.
Per quanto riguarda le tecniche, alcune sono rimaste invariate, come passare il fondotinta, come sfumare l’ombretto o stendere il rossetto, mentre altre si sono evolute nel tempo. E’ come suonare il piano, se non sai fare le scale non puoi pretendere di fare i concerti. Ci devi arrivare gradualmente.
D.: Dove e quando hai notato – e se c’è stato – un cambio nel mestiere?
G.D.R.: Io ho sempre avuto l’umiltà di ascoltare tutto e tutti, ma sinceramente il 99% delle cose che mi venivano mostrate non mi convinceva per niente. Io non ho mai usato e mai userò il silicone ad esempio, o certe cose che rendono finto ciò viene messo davanti la macchina da presa. Ogni tanto arrivava da me un collega, un collaboratore o un ex “discepolo” con delle nuove proposte, con qualche nuovo materiale da poter utilizzare, ma il più delle volte lo rispedivo al mittente, perché non rispecchiava e non rispondeva assolutamente alla mia idea di trucco. Devo confessare una cosa che forse le farà storcere la bocca: io odio il trucco! [sorride] Io non firmo il trucco. Il trucco per essere tale deve essere invisibile. A quel punto si può ritenere riuscito. Se si vede allora ho fallito. Le faccio l’esempio di Muhammad: The Messenger of God, film del 2015 di Majid Majidi mai distribuito in Italia, dove il trucco è praticamente invisibile, eppure sull’attore erano applicate ben sette protesi. Tutto deve risultare vero, altrimenti ho fallito. Certo è faticoso, ma questo secondo me vuol dire truccare. Questo è il pensiero che metto in atto anche quando mi occupo degli effetti trucco. La verità prima di tutto. Per questo ho inventato gli effetti fatti direttamente sulla carne degli attori, per fare apparire tutto vero e non artefatto. A tal proposito, in molti – e penso anche lei – ricorderanno l’ormai celebre acceso confronto con Fulci all’epoca di Zombi 2. Lucio voleva realizzare gli zombi simili a quelli di Romero, ma mi rifiutai categoricamente, perché li ritenevo poco spaventosi e credibili, troppo finti, per cui decisi così di effettuare il trucco e gli effetti direttamente sugli attori, usando la creta. E ho avuto ragione.
D.: Quali sono – e se ci sono – differenze per quanto concerne il lavoro del truccatore tra l’Italia e l’estero?
G.D.R.: Il mio modo di affrontare e vivere questo mestiere, che mi è costato molto in termine di fatica, ma mi ha dato anche grandissime soddisfazioni, non è cambiato di una virgola nel corso del tempo. Un mestiere, questo, che mi ha fatto conoscere anche quella donna che poi è diventata mia moglie, con la quale ho lavorato e continuo a lavorare fianco a fianco sui set di mezzo mondo [Mirella De Rossi]. Negli anni sono andato a lavorare moltissimo all’estero, in particolare negli Stati Uniti, ma di certo non sono diventato americano nel modo di lavorare e di concepire il mestiere. Non bisogna dimenticare mai – e non lo faccio nemmeno io – che mi sono formato e affinato con grandissimi registi italiani, a cominciare da Luchino Visconti, Sergio Leone o Bernardo Bertolucci. Poi ho lavorato moltissimo anche in Francia e pure lì ho portato con me le mie metodologie. Ad esempio, ho girato con i francesi Asterix e Obelix contro Cesare, l’unico per me valido perché gli episodi successivi hanno via via perso le spirito della matrice originale. Ricordo che fu un autentico bagno di sangue, perché ci misi ben sei mesi a trovare i materiali giusti da utilizzare per ottenere il massimo per quel film. Per evitare di dover utilizzare il silicone per le protesi diventai matto. La resa sullo schermo funzionava, ma dal vivo mi faceva schifo e per questo sono andato a cercare altri materiali più adeguati alle mie esigenze e alla fine li ho trovati. Non mi sono arreso e ho continuato a cercare, perchè non bisogna mai smettere di cercare e non smetterò mai d farlo. Alla fine della lavorazione uno dei due registi venne da me per ringraziarmi, perché avevo rispettato la sua visione e per averlo aiutato a restituire l’immaginario di quel mondo attraverso il lavoro sui personaggi.
Molti colleghi mi accusano di continuare a lavorare con tecniche vecchie, diciamo passate e antiche, ma in quasi sessant’anni di carriera certe critiche e dicerie ho imparato a gettarmele dietro le spalle, tanto da apparire loro ottuso e per certi versi scomodo. Nei decenni ho accettato piccolissimi compromessi, ma devono restare tali e mai così grandi da mettere in discussione o stravolgere la mia visione del mestiere di truccatore. E questo indipendentemente dal film che ho accettato di fare, del regista con il quale ho deciso di collaborare, della nazione dove è stato girato e dalla produzione. Questo per dire che il mio modo di approcciarmi al film di turno non cambia, indipendentemente se la pellicola in questione è Novecento oppure Dragonheart.
D.: Sei stato uno dei collaboratori storici di Lucio Fulci, come lo ricordi?
G.D.R.: Con lui ho avuto un rapporto splendido sia umanamente che professionalmente. Era un genio, un grandissimo talento, peccato solo per quel carattere irruento e difficile che aveva, che gli ha creato non pochi problemi in campo lavorativo. Di lui ricordo la pipa, dalla quale non si separava mai e che regolarmente lasciava spegnere nella tasca della giacca. Tant’è che a fine giornata accumulava almeno 3 cm di cenere nella tasca.
A mio parere non è stato rivalutato nella giusta misura. Ha conosciuto momenti bui e di forte sconforto nell’arco della sua carriera a causa del fallimento di alcuni suoi film, ma anche raccolto grandi consensi, in particolare con una delle pellicole che abbiamo fatto insieme, ossia Zombi 2, che è stato per ben tre settimane in testa al botteghino americano. Da lì ha poi spiccato il volo, penso ad esempio a un altro straordinario film fatto insieme come E tu vivrai nel terrore – L’aldilà.
D.: Nell’arco della tua lunghissima carriera c’è stato spazio anche per il passaggio dietro la macchina da presa. Ci parli di quelle esperienze da regista?
G.D.R.: Per natura non sono mai stato uno che si è tirato indietro, per questo non mi sono mai fossilizzato in un genere e ho sempre voluto provare cose difficili e diverse. Ho sempre avuto – e continuo ad averne – bisogno di adrenalina. Ed è proprio questa esigenza di misurarmi con qualcosa di diverso, mista a incoscienza, che mi ha spinto a passare dietro la macchina da presa. Devo dire che non sono particolarmente fiero di quei film [Cyborg, il guerriero d’acciaio e Killer Crocodile 2], che tra l’altro ritengo anche piuttosto brutti, ma comunque non avrò il rimpianto di non averci provato. Sono stati un favore che ho voluto fare al produttore Fabrizio De Angelis, che mi aveva dato la possibilità di fare Zombi 2. Aveva un contratto e un piccolo budget per fare questi due film. Un giorno è venuto da me a chiedermi se li volevo dirigere e l’ho fatto. Sono sempre stato una persona riconoscente. Ad esempio, a Raffaella De Laurentiis devo il mio lancio internazionale con Dune di Lynch. Da quel momento qualsiasi cosa mi ha proposto l’ho accettata, per rinoscienza nei suoi confronti.
Devo dire che però il fallimento di quelle esperienze da regista non mi sono proprio andate giù, tanto che mi ero ripromesso di riprovarci non appena ci fossero stati i presupposti. Ora è giunto il momento del mio canto del cigno da regista. Ho deciso di tirare fuori dal cassetto una sceneggiatura di un horror dal titolo Acqua, fuoco, peste e carestia, con protagonisti quattro personaggi agghiaccianti che vengono condannati a morte e poi resuscitano per vendicarsi. Il film parla di una scolaresca che va in gita alle rovine della Villa di Plinio a Castel Fusano, vicino Roma. Una sera una coppietta svicola dal gruppo per andare a imboscarsi e trova una lapide. La notte seguente la coppietta con altri compagni di classe vanno a scavare nel luogo del ritrovamento e da lì avrà inizio l’inferno.
Francesco Del Grosso