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Western

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VOTO: 7

Il West dell’Est

La regista Valeska Grisebach torna dietro la macchina da presa dopo ben undici anni di silenzio, interrotti solamente con sporadiche collaborazioni come consulente per le sceneggiature, tra cui spicca quella per Vi presento Toni Erdmann. Un inaspettato ritorno che conferma il suo modo di volersi approcciare alle storie sia narrativamente, scritte da lei, e sia visivamente. Per la sua terza opera ha scelto un titolo molto evocativo, che trae con sé due significati molto marcati. Rievoca un genere fondamentale nell’immaginario cinematografico, molto codificato al suo interno; e rievoca anche il vecchio West reale, che era la terra di frontiera inesplorata, ancora vergine prima che i conquistatori la violentassero e la depredassero. Western, titolo secco come la narrazione utilizzata, non si può definire propriamente una variazione di quel genere, e neppure un aggiornamento al presente di quel mondo, però la Grisebach coglie da quell’epoca gli umori e alcuni codici che si adagiano bene con le intenzioni di studio sociale e antropologico che contraddistinguono l’intero breve opus della regista tedesca.

Se il western era ambientato nel profondo Ovest dell’America del Nord, oltre il fiume Mississippi, Western – visto al Cineuropa Compostela 2017 – è ambientato nel profondo Est dell’Europa, oltre l’ex cortina di ferro. Due territori geograficamente agli antipodi, però con le medesime tensioni e aridità sociali e territoriali che perdurano. Se il presente dell’Ovest americano si è quietato e conformato, nell’Est Europa la rabbia e il dolore persistono, e sono palpabili. Il passato, quello della Seconda Guerra Mondiale, seppure è lontano ed è cambiata la generazione, continua a dolere. La povertà che vive tuttora il piccolo paese (e l’intera Bulgaria), viene imputata all’occupazione tedesca, che impose una tirannica e aggressiva gestione a quel tempo. Una riflessione che mostra come gli ex stati satelliti, schiacciati sotto il tallone dell’URSS, sono molto più indulgenti verso l’ex dittatura stalinista, che tra i molti soprusi, ha però lasciato degli aspetti positivi. Ad esempio Adrian è contento del camioncino russo, residuo di quell’epoca oscura.
In questa landa aspra, la Grisebach fa “scontrare” i due fronti, in cui il gruppo di operai tedeschi rappresenta i “cowboy banditi”, mentre gli abitanti del posto gli “indiani”. Gli atteggiamenti dei lavoratori si conferma subito arrogante, come il piantare nel proprio campo, sostituzione presente del fortino, la bandiera tedesca. Oppure nel molestare le ragazze o fare richieste prepotenti per ottenere quello di cui hanno bisogno. In questo Western ci sono i cavalli, i fiumi, le montagne ispide, il “saloon”, le grandi bevute, le rivalità e le amicizie virili/fraterne, ma sono “codici” western che la Grisebach usa per indagare le relazioni e dissidi che si creano. La macchina da presa è nuovamente usata come uno strumento per studiare gli aspetti antropologici della vicenda. Seppure ambientato in ampi ambienti naturali, la regista si concentra e si stringe sui personaggi, inquadrandoli sempre in modo abbastanza avvicinato. Ama soffermarsi sui lunghi dialoghi tra le due diverse fazioni, che interagiscono tra loro con due lingue differenti. Meinhard, il “cowboy” tedesco buono, è il ponte tra queste due culture, una quieta figura che ama relazionarsi con gli indigeni, piuttosto che con i suoi connazionali. Ha sulle sue spalle il nero passato tedesco, però è l’unico che riesce a relazionarsi, a conquistare la fiducia degli abitanti del paese e quasi a integrarsi con loro. Nel costruire questa indagine, la Grisebach prosciuga il racconto e lo dilata, per far aumentare la tensione che rimane fino alla fine. Lascia delle scene in sospeso, senza sovraccaricare la narrazione, e le informazioni giungono dai tesi rapporti e/o dai dialoghi dei personaggi. E non c’è nemmeno la musica di accompagnamento, proprio per rimanere il più possibile vicino alla realtà. Probabilmente una storia ruvida nel suo essere narrativamente e visivamente austero, però fluido e penetrante nell’esporre un presente duro.

Roberto Baldassarre

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