Dimensione Uomo
C’è sicuramente la spiegazione scientifica, curata nei minimi particolari, in Interstellar. Tuttavia non è così importante riflettere sulla sua verosimiglianza o meno. Perché l’ultima fatica di Christopher Nolan non è un film di sola fantascienza, tutt’altro. Come di consueto, nel cinema del regista londinese, ben saldo al centro della narrazione è presente l’enigma più irrisolvibile, cioè l’essere umano esaminato in molte delle proprie, innumerevoli, variabili. Se Memento (2000), The Prestige (2006) e Inception (2010) potevano essere considerati esempi perfetti di film in cui il cinema stesso, sorta di divinità incontrastata, dimostrava senza appello la fallacità estrema della sensorialità umana – rispettivamente nella memoria, nello sguardo e nell’inconscio – nel caso di Interstellar Nolan mette da parte la teoria per concentrarsi sulle emozioni primarie, quelle che traspaiono da personaggi finalmente consapevoli delle loro imperfezioni. E il testo cinematografico, da respingente e stimolante proprio a causa della sua (perseguita) incolmabile distanza dallo spettatore, si trasforma in accogliente luogo simbolico di confronto, dove ognuno può fornire l’interpretazione che meglio crede opportuna.
In un futuro prossimo la Terra sta morendo. Che ciò stia accadendo per colpa dell’inquinamento e/o di alcune disfunzioni gravitazionali che hanno colpito il nostro pianeta importa relativamente. Nolan, pur nella consueta magnificenza di messa in scena, interiorizza nel melodramma famigliare l’Apocalisse imminente. Nella difficoltà assoluta è la reazione istintiva a prevalere. Gesti intrisi di supremo affetto paterno e altruismo tout court (il protagonista, l’ingegnere e pilota d’astronave Cooper) possono dunque venire soggettivamente percepiti alla stregua di tradimenti imperdonabili (dalla figlioletta Murph). La scienza (il luminare professor Brand) può mentire per provare a salvare quello che rimane degli affetti più cari (la figlia astronauta Amelia). Si decolla per un viaggio intergalattico alla ricerca di un qualcosa che è inganno già in partenza, poiché nei presupposti non esistente. Si attraversa un wormhole e l’avventura si biforca, mutando forma e tempo conosciuti. Si affrontano da una parte tempeste di sabbia sempre più insistenti, dall’altra – nello spazio profondo – pianeti d’acqua dove onde alte centinaia di metri mettono a rischio la sopravvivenza. Ma la vera odissea, nel nuovo umanesimo firmato Nolan, consiste nel resistere al corto circuito emozionale della differente scansione temporale: sulla Terra le persone crescono, invecchiano e muoiono; lassù rimangono imprigionate in una sorta di limbo in apparenza privo di senso e vie d’uscita. Un labirinto narrativo solo apparentemente complesso e indecifrabile tipico di Nolan, in realtà cristallino come una fiaba ambientata nell’infinito e sconosciuto universo. Le due situazioni si alternano nel montaggio al culmine dell’azione, e il cinema dello stesso Nolan diventa irrefrenabile, un piacere tutto da godere. L’istinto di sopravvivenza – di poter nuovamente vedere, amare fisicamente – combatte contro la sua metà oscura deteriore, quella indivisibile composta da egoismi e meschinità, nel segmento migliore di un’opera che comunque mantiene le attese di un evento annunciato. Anche per merito delle convinte e convincenti interpretazioni di un Matthew McConaughey (Cooper) ormai imprescindibile strumento da plasmare in mani autoriali e una Jessica Chastain (sua figlia Murph) che è sempre pura emozione da ammirare.
Nel controverso finale, dall’ingresso nel buco nero, Christopher Nolan e il fratellino Jonathan (cosceneggiatore) osano l’inosabile. Si azzardano a superare le Colonne d’Ercole dell’ineguagliabile 2001: Odissea nello spazio di quel Stanley Kubrick venerato nemmeno troppo sottopelle – vedere per credere la forma monolitica del sagace e umanissimo robot di bordo, ben più di un semplice omaggio – dal Nolan regista. La morte come unica, inevitabile, strada per accedere alla verità assoluta sul ciclo vitale lascia il posto all’abbattimento di qualsiasi barriera spazio-temporale. L’essere umano, o meglio la propria essenza, assurge ad un grado superiore. Dio. Oppure, più “semplicemente”, l’autore ideale di un cinema iperrealistico nella sua finzione, aperto a qualsiasi soluzione. Il viaggiatore può quindi proseguire la sua infinita missione. Qualcuno alzerà il sopracciglio, scettico. Ma attenzione: nell’ultima parte di Interstellar c’è forse la chiave per decrittare tutto il cinema passato di Nolan. Nonché il trampolino per accedere a quello futuro. Anche solo per questo – e per mille altri motivi – Interstellar andrebbe vissuto come un’esperienza in cui cuore e mente si fondono fino a confondersi e non più riconoscersi l’un l’altro. Nel cinema superbamente razionale e metodico di Nolan sarebbe la prima volta. Dopo la compassionevole fine di Bruce Wayne/Batman nel penultimo Il cavaliere oscuro – Il ritorno (2012), a suggellare una trilogia blockbuster d’autore, si aprono davvero nuovi orizzonti – nemmeno troppo paradossalmente guardando anche al cinema classico del passato – per uno dei cineasti in assoluto maggiormente fondamentali di un nuovo millennio che intanto avanza senza freni.
Daniele De Angelis