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Incontrol

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VOTO: 5.5

Fatti un giro nelle loro teste

Depistaggio: si potrebbe sintetizzare con una sola parola quanto provato a fare da Kurtis David Harder sin dal processo di scrittura di Incontrol, recentemente presentato nel concorso lungometraggi della 37esima edizione del Fantafestival. Il cineasta canadese si diverte a giocare al gatto con il topo con lo spettatore di turno, seminando nello pagine dello script prima e successivamente nella timeline una serie di indizi che suggeriscono strade che la narrazione non prenderà mai veramente sul serio. L’autore di fatto cambia continuamente le carte in tavola nella speranza che il risultato finale gli dia ragione, ma non sarà così. In tal senso, il trucchetto delle tre carte gli sfugge di mano, con il titolo che da questo punto di vista appare al quanto profetico. Harder, suo malgrado, non è a nostro avviso il “prestigiatore” che crede di essere.
Incontrol si rivela come un accumulo di promesse (o presunte tali) non mantenute. Bluffare non è per niente semplice perché devi essere più astuto di chi è seduto al tuo stesso tavolo verde. La bravura non basta a garantire la vittoria. Per quanto ci riguarda, il regista nordamericano è un giocatore ampiamente nella media, capace di partecipare alla partita ma non di portarla dalla sua parte. Ciò che gli va riconosciuto semmai è un certo gusto nel confezionamento visivo (vedi scena del trip durante il primo party), ma non nella composizione del racconto. Suspense, tensione, azioni spettacolari, effettistica e costruzione scatologica, elementi imprescindibili per i due generi chiamati in causa, ossia il thriller e lo Sci-Fi, qui latitano per affacciarsi solo in rari casi e per di più troppo a ridosso dell’epilogo, quando ormai i giochi sono fatti. A sessanta e passa minuti di calma piatta ne seguono, infatti, almeno una ventina decisamente più sostanziosi e riusciti. Lì i meccanismi drammaturgici si dimostrano più funzionali ed efficienti, ma non abbastanza per risollevare in maniera decisiva le sorti dell’operazione. La scossa data dalla scena del party finito nel sangue non è sufficiente purtroppo a invertire la rotta.
Peccato perché l’idea che va ad alimentare il plot, nonostante sia la somma di cose e suggestioni già apparse sul grande schermo (ci sono tracce di Strange Days, Matrix, The Game, Inception, Linea mortale e chi più ne ha più ne metta), poteva in qualche modo trovare una propria strada e calamitare a sé l’attenzione del fruitore. Al contrario, l’imperfetta e incerta gestione delle componenti in possesso non ha permesso al risultato di dare i frutti sperati, in primis da una platea incuriosita da una sinossi che vedeva un gruppo di studenti universitari alle prese con un dispositivo remoto che consente loro di entrare a distanza nelle menti di estranei e di vivere le loro vite. Ovviamente, quello che inizialmente appare come un ludico passatempo, si rivelerà poi una pericolosa dipendenza.
Le suddette imperfezioni strutturali non hanno permesso all’architettura narrativa di solidificare. I limiti invalicabili di Incontrol dunque, come avrete avuto modo di capire da questa recensione, risiedono fondamentalmente e soprattutto nello script. Harder ha provato a volare troppo in alto, ma le sue ali come quelle di Icaro hanno finito con lo sciogliersi in prossimità del sole. La visione della pellicola ha messo in evidenza le sue debolezze di narratore e allo stesso tempo le sue indubbie qualità tecniche dietro la macchina da presa. Proprio in virtù di questo dovrebbe prendere esempio da un quotato collega come David Fincher, che per sua stessa ammissione ha sempre preferito essere un ottimo “costruttore di case”, piuttosto che un mediocre architetto o ingegnere.

Francesco Del Grosso

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