La classe operaia va all’inferno
C’è chi attribuisce la frase «Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso» ad Ernesto Che Guevara e chi, al contrario, la associa a Bertolt Brecht, ma indipendentemente dalla paternità il messaggio della quale si fa portatrice sana è sin troppo chiaro e non necessita di ulteriori approfondimenti. Stéphane Brizé l’ha presa in prestito dal poeta, drammaturgo e regista tedesco, per innescare la timeline della sua ultima fatica dietro la macchina da presa dal titolo In guerra, che dopo le anteprime alle recenti edizioni dei festival di Cannes e Chicago (dove si è aggiudicata il premio per la migliore sceneggiatura) approda sugli schermi nostrani a partire dal 15 novembre con Academy Two.
La lotta in questione è quella portata avanti da Laurent Amédéo, delegato sindacale e portavoce dei 1100 dipendenti di una fabbrica che sta per chiudere. Nonostante l’aumento dei profitti dell’ultimo anno e i sacrifici finanziari dei dipendenti che hanno accettato un taglio del loro stipendio, i dirigenti della Perrin Industries, che fa capo ad una multinazionale con sede in Germania, decidono improvvisamente di chiudere una loro fabbrica. I 1100 dipendenti, rappresentati dal loro portavoce Laurent Amédéo, decidono di opporsi a questa drastica decisione, pronti a qualsiasi cosa pur di non perdere il posto di lavoro.
Letta la sinossi, visto il tema e l’ambientazione operaia, l’identikit del film in questione sembrerebbe quasi in automatico riconducibile al cinema targato Ken Loach, che di battaglie simili ne ha raccontate svariate nel corso della sua carriera. Ma stavolta ad occuparsene è il collega francese Brizé, che con In guerra torna a rivolgere il proprio sguardo sulla crisi economica imperante, sul suo impatto individuale e collettivo e sulla messa in discussione del diritto al lavoro. Tre anni or sono se ne era occupato con La legge del mercato, un dolorosissimo e altrettanto potente e attuale dramma umano e sociale sulla disoccupazione con protagonista un uomo di 51 anni alle prese con la perdita del lavoro. Stanco di lottare contro la fabbrica per cui lavorava, che ha delocalizzato, si impegna con tutto se stesso in corsi di formazione e colloqui, tra umiliazioni e false speranze. Dalla sua ha una moglie che ama, e un figlio altrettanto caparbio nel voler continuare gli studi malgrado la disabilità. Quando finalmente l’impiego arriva, l’uomo si trova di fronte a un dilemma morale: cosa si è disposti ad accettare per conservarsi un lavoro?
Con il medesimo dilemma, ma con ben altra odissea, si troverà a fare i conti anche il protagonista di In guerra, anch’esso affidato al sempre all’altezza Vincent Lindon, che non ha bissato la vittoria della Palma d’Oro, ma con un’interpretazione di egual intensità, forza e fisicità, ha contribuito in maniera determinante ad alzare il peso specifico dell’opera e in primis del personaggio che gli è stato affidato. È lui a caricarsi sulle spalle, così come nel film del 2015, un’opera che si fa largo sullo schermo in primis con le parole e poi con le azioni. Ma quando le prime lasceranno spazio alle seconde, le conseguenze saranno inevitabili generando una reazione a catena che avrà la tensione come spinta propulsiva. In guerra tanto nello script quanto nella sua trasposizione si regge, infatti, su una doppia tensione, dialettica principalmente e dinamica poi. È con questa che il cineasta francese porta avanti e alimenta dall’interno un “magma incandescente” che ad un realismo quasi documentaristico (macchina a mano attaccata ai personaggi) nella forma affianca la sostanza di un epos tragico che va a colpire sia la sfera emotiva che quella intellettuale dello spettatore.
Laurent Amédéo è il Davide contro Golia della situazione che identifica l’impotenza dei lavoratori di fronte al capitalismo contemporaneo. Contro di esso si immola senza risparmiarsi, diventando di fatto una figura universale che si batte per il presente suo e per quello degli altri, ma soprattutto per il futuro di chi verrà. E lungo il percorso che passerà per cortei pacifici e no, dimostrazioni simboliche, occupazioni ad oltranza, false speranze e illusorie conquiste di chi viene invitato al tavolo delle trattative solo per calmare le acque, dovrà fare i conti non solo con il muro di gomma eretto dalla dirigenza, ma anche con le numerose fratture interne che vanno a destabilizzare e disunire il gruppo posto dall’altra parte della barricata e che è stato chiamato a guidare e rappresentare.
In guerra è la cronaca filmata dura e cruda dell’ennesima battaglia ad “armi” impari che oggi come ieri pare avere un solo vincitore. Al film l’ardua sentenza e a noi il compito di accettarne nel bene e soprattutto nel male gli esiti.
Francesco Del Grosso