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Il tempo che ci vuole

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VOTO: 8.5

Un padre e sua figlia

Il tempo che ci vuole non è solo il titolo dell’ultimo lavoro di Francesca Comencini, ma ci permettiamo di prenderlo in prestito perché è “il tempo che ci vuole” anche per scriverne a riguardo (con la consapevolezza che non sarà mai abbastanza perché, in questo caso forse più di altri, si può e si deve essere oggettivi nel nostro ruolo, ma non è semplice – e non sarebbe giusto – lasciare da parte il carico umano con cui si esce dalla sala).
Sembrerà “sottile” ma nei titoli di coda si legge: Luigi e Francesca (senza i cognomi) con accanto i nomi degli straordinari interpreti, Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano. Di fronte, infatti, ci troviamo un padre e una figlia, non il padre Luigi Comencini – cineasta talvolta anche sottovalutato – né la figlia, Francesca Comencini, spesso “etichettata” per il suo sguardo femminista.
Quando il film comincia ha il sapore (anche come confezione tecnica) di ciò che si girava per tenerlo come ricordo personale, soprattutto durante l’infanzia. Conosciamo Francesca a 8 anni (Anna Mangiocavallo molto spontanea) che va anche sul set dell’opera a cui suo padre sta lavorando ed è qui che (coerentemente) i piani si intersecano: l’infanzia di lei con quella magica del racconto di Pinocchio e dell’incanto del set del cinema. Il padre racconta alla figlia del suo lavoro e la ascolta, la osserva, le parla con serietà, compostezza, rispetto, cercando di farle vincere anche le paure (come quella, nutre verso la balena). La prende per mano quando questo mammifero viene esposto a piazza del Popolo a Roma (non a caso) in una tenda da circo, ma non la forza, è lei che può e sa scegliere se entrare o meno. La bambina visita il set in cui pulsa la vita, il chiasso, l’umanità, il lavoro, l’affanno, l’infatuazione, la magia e il sudore e si perde in quel mondo, “sbaragliando” i piani, entrando in campo quando non dovrebbe, nascondendosi tra i cespugli. Il papà-regista invita la troupe a non gridare, ad ascoltare i bambini e a chi rimprovera le persone comuni che si affacciano alle finestre, dice con una calma serafica: «Siamo noi che stiamo invadendo le loro vite».
Nel frattempo Francesca cresce e, di conseguenza, svanisce anche quel momento in cui può stare sulle gambe del padre, sentirsi protetta dalle mura di casa. Il passaggio all’età adulta è inevitabile, porta con sé delle nuove scoperte, ma anche la rottura con l’infanzia. Quella figlia pensa che non sarà mai all’altezza di suo padre e precipita apposta per non esserlo davvero: decide di drogarsi e, nel tornare a casa, cerca di fare finta di niente. Non vuole incrociare lo sguardo, elude le domande, dentro di sé molto probabilmente soffre proprio perché lo sta deludendo. Il padre all’inizio è disarmato, poi prende posizione e decide che non farà finta di niente.
Ne Il tempo che ci vuole questo mutamento tra loro due, le differenti età (in particolare per Francesca), viene reso anche attraverso il modo di abitare lo spazio della casa: prima più aperto, quasi non ci fossero porte; poi il lungo corridoio viene percorso di fretta per rinchiudersi in camera e poi in bagno. In questa prospettiva (e non solo) essenziale è il viaggio a Parigi, ma non vogliamo rivelare il perché. Mentre tutto ciò accade è come se Luigi debba metabolizzare il tempo che ci vuole (Gifuni è magistrale per lo spessore umano, oltre che artistico che gli conferisce) per (ri)avvicinarsi alla figlia, capendo quale sia il modo migliore. Ma il lungometraggio interroga anche su questo: c’è qualcosa di più giusto da fare? No, perché non esiste il manuale d’istruzioni per essere genitore così come non c’è per un figlio. Si tenta, si riprova, non si molla. Non è semplice chiedere aiuto e mettere da parte la paura del giudizio (Romana Maggiora Vergano incarna questa giovane donna di pancia, in alcuni momenti donandosi con tutta se stessa per esprimerne le fragilità). Quando si cresce, forse, il rapporto va ricostruito (o “semplicemente” coltivato) perché nulla è scontato, neanche se si tratta di un legame di sangue e in ciò emerge l’importanza del contatto, dei corpi, dei gesti così come dei silenzi. «Anche se fallisci così almeno capisci che hai fallito». Scoprire che anche il proprio “mito” (così si vede il papà da bambina, si dice che così lo vedano soprattutto le figlie) che può aver avvertito di aver fallito nel proprio percorso e che gli “inciampi” fanno parte di quella crescita, aiuta a rendere tutto più tangibile, sopportabile e alla ‘stessa altezza’.
Il tempo che ci vuole entra in punta di piedi nel cuore dello spettatore, poi pian piano è come se facesse entrare nella pancia della balena, ora accarezzando, ora inchiodandoti al muro per passare a un vortice in cui ci si sente inclusi. Tutto ciò grazie al fatto di vivere il «cinema come modo di stare al mondo».
È così, mentre al centro si mette a nudo la relazione padre-figlia, non mancano i riferimenti a ciò che accade in Italia (e da Francesca Comencini ci si aspetta questa attenzione) come l’esplosione di Piazza Fontana nel ’69 o il rapimento di Moro nel ’78.
Il titolo del lungometraggio è lineare da qualsiasi prospettiva lo si veda: da quella puramente narrativa a quella esistenziale (senza mai cadere nella retorica), al ritmo fino al tempo che ci vuole allo spettatore per rifletterci portandoselo con sé perché è impossibile che non resti addosso per la com-mozione profonda in grado di “provocare”. Quando si è piccoli magari si poggiano i piedi su quelli più grandi del proprio papà e si balla o lui prende in braccio; da grandi si immagina un valzer con lui in un momento importante. Al contempo, può capitare di non essere sulla stessa lunghezza d’onda e va trovato un equilibrio, che può portare anche al ribaltamento di alcuni ruoli, nel prendersi cura l’uno dell’altro.
Così come era giusto che Francesca Comencini rispettasse il suo tempo per aprirsi così, con la giusta distanza nel rendere pezzi della propria vita universali. «Questo film è il racconto molto personale di momenti con mio padre emersi dai ricordi e rimasti vividi e intatti nella mia mente. Un racconto personale che credo però trovi la giusta distanza nel fatto che in mezzo al padre e alla figlia c’è sempre il cinema come passione, scelta di vita, modo di stare al mondo. Intorno gli anni delle stragi, delle rivoluzioni sociali, della comparsa delle droghe, che stravolsero la vita di una intera generazione» (dalle note di regia).
Dopo essere stato presentato in prima assoluta, Fuori Concorso (avrebbe meritato di essere nel Concorso principale) alla 81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dal 26 settembre è nei nostri cinema ed è un regalo da farsi e magari fare condividendolo.

Maria Lucia Tangorra

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