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De l’amour perdu

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VOTO: 7,5

Un cuore diviso a metà

Il sostantivo talento risulta il più delle volte abusato e utilizzato in maniera impropria. La facilità con la quale viene attribuito all’artista di turno, indipendentemente dall’età e dalla sfera in cui esercita, è disarmante. Ecco perché quando capita di intercettarne e riconoscerne uno vero come Lorenzo Quagliozzi, regista classe 1999, quasi si fa fatica a crederci. Nel suo caso ci sentiamo senza esitazione alcuna di farne tranquillamente uso poiché sono le qualità espresse nel lavoro dietro la macchina da presa e i risultati ottenuti a certificarlo. Formatosi lontano dalle accademie di cinema come è stato per l’allora enfant-prodige Xavier Dolan, il giovane cineasta romano ha fatto dell’esperienze maturate come stagista sui set di The New Pope ed Esterno Notte il proprio bagaglio personale. Bagaglio questo, che è andato ad affiancare e ad alimentare un percorso da autodidatta che lo ha portato a dirigere ad oggi tre opere sulla breve distanza degne di nota, ultima delle quali, dal titolo De l’amour perdu, ha messo per quanto ci riguarda in evidenza quelle che sono le sue capacità narrative e tecniche, frutto entrambe, oltre che di maturità stilistica e di una consapevolezza nell’uso dell’hardware già evidenti, anche di doti naturali, di puro istinto e di un discreto gusto nella composizione delle singole immagini, laddove l’estetica mai fine a se stessa è funzionale al racconto e al suo completo servizio.
Il cortometraggio, presentato nel concorso di categoria al Castiglione del Cinema Film Festival 2024 dopo la vittoria del Nastro d’Argento e il passaggio in vetrine prestigiose come quelle della Settimana della Critica nell’ambito dell’80esima Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia e della 19esima edizione di Cortinametraggio, è la prova tangibile che materializza davanti agli occhi e sullo schermo quanto da noi dichiarato in apertura. Quagliozzi in tal senso riesce a fare di necessità virtù, sfruttando al massimo le poche risorse economiche a disposizione per dare forma e sostanza all’opera in questione. Vuoi per necessità, vuoi anche per scelta di chi lo ha concepito, De l’amour perdu ha visto lo stesso autore ricoprire più ruoli dalla scrittura alla fotografia, dal montaggio agli effetti visivi, oltre ovviamente alla regia. Il ché lo ha sottoposto a una mole di lavoro e a uno sforzo creativo non indifferente per portare a termine l’opera, ma al contempo ad avere un controllo pieno della stessa dalla pre alla post-produzione. Uno sforzo però che a conti fatti ha dato vita a uno short che merita attenzione tanto nel modo in cui viene approcciato quanto in quello in cui viene analizzato nel momento in cui viene fruito e sottoposto ai raggi x della critica.
Partiamo con il sottolineare la scelta coraggiosa operata dal venticinquenne regista capitolino di realizzare un period-drama nonostante i limiti di budget. Il rischio di inciampare rovinosamente in incongruenze storiche e in una messa in scena non credibile è dietro l’angolo per chiunque decida di confrontarsi con un film in costume che sposta l’azione nel passato. Ciò per nostra e sua fortuna, ma sopratutto per merito dell’autore, non si è verificato con De l’amour perdu che su entrambi i fronti è riuscito a superare le difficoltà e a scacciare la minaccia. La resa assolutamente credibile in tal senso è la dimostrazione. Quagliozzi con i pochi mezzi a disposizione è stato in grado di confezionare un dramma umano a sfondo bellico di comprovato valore che tocca argomentazioni universali e dal peso specifico rilevante attraverso una storia di preghiera e di rinunce: quelle di una giovane monaca divisa tra Dio e l’amore nella Francia occupata dai nazisti. Gli orrori della guerra, il cui eco arriva costante alle orecchie dello spettatore mediante il frastuono delle detonazioni delle bombe che squarcia il silenzio sacro dei luoghi di preghiera che fanno da cornice al racconto, sono lasciati fuori campo per restituire il tormento di una vicenda interiore. La grande Storia però non passa in secondo piano, ma si va a contrapporre proprio all’intimità del dramma, diventando il tema cardine della pellicola. Le due sfere si mescolano senza soluzione di continuità alimentandosi a vicenda sino a partorire un plot in cui l’una si riversa nell’altra per parlare di sentimenti, emozioni, fragilità e crisi.
Il tutto scandito da un racconto che fa del ritmo interno di ogni singola immagine e non di montaggio il proprio motore portante. La frenesia del taglio lascia cosi spazio al tempo fisiologico, quello che permette alla verità del momento di manifestarsi e delle emozioni di consumarsi. Il non staccare fino a quando l’inquadratura non avesse perso il suo senso, finché questa non avesse assolto al suo compito, è alla base del discorso e dell’impianto narrativo e tecnico del corto, che trova un supporto anche nelle performance attoriali di Catherine Bertoni de Laet e Francesca Osso, nella lentezza dei dialoghi, nel rigore formale che chiama in causa Bresson, nella cornice ristretta del 4:3 e in un’atmosfera cupa persistente che con una fotografia livida e desaturata riporta la mente a L’armata degli eroi di Jean-Pierre Melville, che il regista stesso ha dichiarato con tutte le distanze del caso di avere avuto come riferimento.

Francesco Del Grosso

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